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Il titano buono in vetrina a Siracusa

di Rossella Palmieri
  Prometeo
Data di pubblicazione su web 05/06/2012  

 

«E  parlerò non per umiliare gli uomini, ma per rendere conto della mia benevolenza verso di loro. Prima guardavano e non vedevano, ascoltavano e non sentivano: come ombre di sogno conducevano una vita lunga e senza senso […] Tutte queste risorse, infelice, ho donato agli uomini, e per me non ho nessun espediente per liberarmi dalla sciagura presente». Possono bastare questi versi del Prometeo di Eschilo (in scena al Teatro Greco di Siracusa sino al 30 giugno: in calendario anche Baccanti di Euripide e Uccelli di Aristofane) per toccare con mano la sofferenza fisica e morale dell’omonimo protagonista della tragedia, interpretato dal bravissimo Massimo Popolizio, già scelto dieci anni fa da Luca Ronconi per il ruolo di Dioniso in Baccanti.

 

Dare un senso, attraverso il dono del fuoco, ai ciechi mortali – e mai termine potrebbe essere più appropriato se già nel nome Prometeo è colui che ha la possibilità di vedere lontano – non può che chiamare in causa proprio la vista. La pena di Prometeo, infatti, consiste nell’essere inchiodato ad una roccia ed esposto allo sguardo degli altri: non è un caso se, nell’enucleare le sue sventure, egli invidi proprio la sorte dei suoi fratelli, precipitati nel Tartaro e sottratti allo sguardo.

 

Dall’occhio e dalle sue potenzialità è stato suggestionato il regista Claudio Longhi che ha messo in scena un soggetto per molti versi metateatrale: se è vero che il teatro è proprio il luogo dello sguardo attraverso cui e in cui si guarda e si assiste a un’esposizione di corpi, Prometeo – non vi è dubbio – è “esposto” per tutta la durata del dramma, legato com’è ad una lastra girevole il cui movimento riproduce, a detta di Longhi, «la dinamica dello sguardo come lente per penetrare la realtà, consentendo visioni da vicino, da lontano, di dettaglio e d’insieme, assecondando al massimo grado il meccanismo dello sguardo dello spettatore. È un modo, insomma, per portare in scena le traiettorie dell’occhio, e i movimenti della lastra aiutano a realizzarle». In tale direzione la struttura elaborata per le scene da Rem Koohlaas accentua questa dimensione dilatando gli spazi.

 

Il risultato è presto ottenuto: la lastra girevole ruota su se stessa così come su se stesso si avvolge e si contorce lo sventurato Prometeo, costretto a una lunghissima sofferenza fisica alla quale non può mettere fine pur disponendo del dono della conoscenza del futuro, necessario per contrastare lo scoramento dettato dalla pesantezza del dolore fisico e della sua durata. Reo di aver elargito il fuoco ai mortali, sconta il paradossale peccato della generosità (sia pur resa vana, quest’ultima, dal gravissimo peccato di hybris, la tracotanza) attraverso quella legge inesorabile e fatale che i Greci chiamavano “necessità”, come lo stesso protagonista argomenta sul filo della retorica. «Io che ho avuto pietà dei mortali, per me non sono stato considerato degno di ottenerla, e spietatamente sono stato punito, spettacolo che fa vergogna a Zeus».


In questo come in altri non meno drammatici monologhi emerge tutto lo spessore del personaggio tragico che porta su di sé non solo il fardello della sofferenza fisica – splendido l’effetto scenico di Efesto (interpretato da Gaetano Bruno) dal volto completamente nero che nell’incipit della tragedia puntella i ceppi con brutalità tecnica –  ma anche quello, di più ampia portata, relativo alla storia. «Sì, perché vi è polarità oppositiva tra storia come decadenza e come progresso, una dialettica temporale quale preludio a una sintesi», spiega il regista Claudio Longhi. «Il mondo di Prometeo è, in fondo, sospeso tra due catastrofi: una appena passata, che ha portato al potere Zeus, e una che ci attende, perché lo stesso potere di Zeus è in pericolo. Forse la sintesi, l’equilibrio si troverà all’indomani di una nuova catastrofe che comporterà la composizione di un nuovo ordine cosmico in cui Zeus sarà costretto a rivedere i modi del suo dominio».

 

Anche il cromatismo dei costumi tiene conto di questa sorta di genealogia tra gli dèi vestiti di nero, i nuovi, e quelli vestiti di chiaro, di bianco o color carne, i vecchi. Ancora una volta – è il caso di dire – potenza dello sguardo. Ma c’è un altro senso, oltre a quello della vista, ad avere un ruolo importante all’interno della dramma e delle soluzioni sceniche. Ed è, appunto, il senso, la parola-chiave, secondo Longhi, che unisce il classico al moderno, le tragedie di tanti secoli fa alla deriva post-moderna e non meno tragica di oggi. «È determinante orientare, ed è qui che antico e moderno si fondono ed è possibile scorgere una risposta. Il coro, a fine dramma, ci dà una bella lezione, quella di imparare a resistere: con la sua scelta di “soffrire con il protagonista ciò che è destinato”, incarna i valori di solidità e di resistenza».

 

Il coro di Oceanine, composto – novità assoluta – da un gruppo di danzatrici della Martha Graham Dance Company, non si limita a patire con Prometeo ma allarga la sua empatia a un orizzonte più vasto, inglobando anche la vicenda dell’infelice fanciulla Io (la convincente e brava Gaia Aprea), amata da Zeus e, per la gelosia di Era, tramutata in vacca e costretta ad un eterno vagabondaggio per via di un assillo che la rende folle. Le donne del coro, agili ed eteree per effetto dei costumi di Gianluca Sbicca, appaiono in scena come creature organiche e senza volto, quasi parti di fondali marini, seppur corrotte e lacerate dal petrolio, simbolo della nuova egemonia di Zeus. Nondimeno le musiche di Andrea Piermartire fendono la scena evocando tutta una gamma di sentimenti: paura e oltraggio, ma anche conforto e solidarietà diventano “suono” grazie al susseguirsi di melodie, voci, rumori ed effetti sonori che hanno il potere di dilatare ancora di più lo stato d’animo dei protagonisti. E non importa se sono per lo più le divinità a occupare la scena, fatta eccezione per la fanciulla Io che è una donna ma sta abbandonando la sua forma umana. In fondo il segreto che custodisce Prometeo – quello della precarietà di Zeus per il rischio che nasca un figlio più forte di lui – non ripropone l’eterno “trauma” padre-figlio declinabile in chiave moderna? Sul classico e sul moderno sapientemente mescolati è ancora una volta il regista Longhi a spiegare il punto di vista: «il classico non è soltanto qualcosa di perpetuamente attuale, ma anche qualcosa di perpetuamente inattuale che pur profondamente distante da noi può parlarci dalla sua distanza, aiutandoci però a mettere in altra prospettiva il nostro presente e a guardarlo meglio perché osservato con altri occhi». E non vi è dubbio che i personaggi delle tragedie, forti della loro immortalità per il loro patire avventure e disavventure, appaiano quanto mai attuali all’uomo moderno.

 

Forse l’unica sfida, oggi, sta nello scegliere di essere in qualche modo “educato”, esattamente come accade al coro che compie questo percorso attraverso lo sguardo. Vedendo, appunto, le sofferenze di Prometeo, il coro sottrae non poco la vicenda alla sventura e al patimento e lascia vagheggiare un mondo, se non certo sereno, almeno consolato.




Prometeo
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