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L'infinita lotta tra l'istinto e la ragione

di Rossella Palmieri
  Baccanti
Data di pubblicazione su web 06/06/2012  

 

L’uno, Dioniso, è l’emblema stesso della tragedia, «il dio vero e perfetto […] il più tremendo per gli uomini e il più dolce». L’altro, Penteo, è il fautore dell’ordine e delle regole. Un dio e un uomo. La furia e la testa. E in mezzo, lacerante, il conflitto tra due estremi inconciliabili. La tragedia è tutta qui, nell’urto prorompente di un dio che varia i suoi toni con la stessa abilità di un retore al punto da confondere fino alla follia chi non riconosce il suo culto e premiare, instillando una forma di dolce e salvifico invasamento, chi si piega ai riti.

 

Dioniso (il convincente e applauditissimo Maurizio Donadoni) sa vestire i panni del nume tirannico ma anche quelli del demone tentatore che spinge il refrattario Penteo (il bravo Massimo Nicolini) a covare un desiderio morboso di vedere e violare i segreti di quel culto che gli sarà fatale.

 

Questo e altro ancora è condensato in una tra le più disperate tragedie di Euripide, Baccanti (al Teatro Greco di Siracusa: in calendario, sino al 30 giugno, anche Prometeo di Eschilo e Uccelli di Aristofane). La tragedia prende corpo dalla forte opposizione tra istinto e ragione, sintetizzata nei due personaggi agli antipodi: il dio che giunge in forma umana a Tebe per punire, travolgendone le menti, quanti lo avevano misconosciuto, e il successore al trono di Tebe Penteo, di mente pragmatica e di indole sospettosa, il solo deciso a opporsi alla follia “ispirata” di Dioniso che ha contagiato – per così dire – anche i vecchi e saggi Cadmo (Daniele Griggio) e Tiresia (Francesco Benedetto). La lieve deriva comica dei due co-protagonisti che, incuranti della vecchiaia, danzano e battono la terra con il tirso contrapponendosi solo per la semplicità con cui il primo accetta il rito, mentre il secondo adduce argomentazioni pseudo-sofistiche – cede subito il passo alla tragedia di una madre, Agave (Daniela Giovanetti), che scambia il figlio per un leone e lo fa a pezzi. Spetterà al padre di lei, Cadmo, ricomporre le membra prima che la donna, rinsavita, riconosca con orrore che la testa che brandisce come un trofeo è di suo figlio.

 

Per il regista Antonio Calenda mettere in scena un testo così complicato significa sviscerare in primo luogo un dio poliedrico, immanente e ineffabile come Dioniso e, contestualmente, far emergere l’aspetto più ancestrale e feroce del dio della diversità e della irregolarità che attinge a impulsi reconditi e primordiali. Una sintesi di questa ossimorica figura è fatta dal protagonista Maurizio Donadoni, «stazza possente ma movenze armoniose e atletiche», secondo la felice definizione del Sovrintendente dell’Istituto Nazionale del Dramma Antico Fernando Balestra, che evidenzia anche il côté orientale della tragedia, rimosso dai Greci di Occidente ed esemplificato sul valore del corpo, della sua aura e del suo carisma.

 

Di certo Dioniso-Maurizio Donadoni conferma le aspettative di tutti abbracciando idealmente il palcoscenico e il pubblico da grande metteur en scène che dirige – e porta sino alle estreme conseguenze – una tragedia amara e disperata dove una madre, quasi come una Vergine Maria ante litteram, piange il figlio morto.

 

Anche i costumi partecipano, per così dire, al dolore di chi soffre. Esemplare, in tal senso, è la resa scenica del coro delle Baccanti della Martha Graham Dance Company – novità assoluta nel ciclo delle rappresentazioni classiche – flessuose in ampie gonne nere e rosse che evocano la morte e il sangue, in contrasto con il bianco “sacrificale” del costume con cui Penteo andrà a morire. A più riprese il regista Antonio Calenda sottolinea il gioco dell’ambiguo e del contrasto dove il giovane fa guerra al vecchio e viceversa («mi vergogno, padre, nel vedere la vostra vecchiaia impazzita»; «non faccio il profeta, parlo di fatti: è un pazzo e dice pazzie»), il nuovo subentra, scardinandolo con forza, all’antico, la realtà diventa illusione e quest’ultima il suo contrario, se è vero che i riti dionisiaci, sconosciuti e feroci, sono anche perversamente desiderati. E a questo punto nello spettatore si insinua il dubbio: chi sta agendo rettamente, l’umano o il divino, la testa o la furia? Euripide, come è noto, non prende posizioni, ma una possibile spiegazione sta nel senso stesso dei riti dionisiaci che, intrisi di mistero, portano con sé a loro volta la “necessità” – concetto polare dei Greci che la definivano ananke – di accettare le incomprensibili leggi divine.


Eppure Euripide non manca di far scorgere una velata speranza nel destino di Cadmo, quello di sposare una donna dal nome “parlante”, Armonia; ma è un cenno troppo fugace per far propendere per una chiusura in positivo della tragedia, se è proprio Cadmo a presagire che non avrà pace dalle sofferenze neanche da questa unione. Proprio a lui, del resto, spetta l’ingrato compito di ricomporre le membra sparse di Penteo che paga così il luttuoso dolore insito nel suo nome. Come dire, è la morte che ricompone, è lei che fa riconquistare decoro e rispetto, è sempre lei che libera dal disordine e fa entrare prepotentemente nella realtà quei personaggi invasati, prima fra tutte la madre Agave che lascia «l’immondo» Citerone sulle meste parole del coro. «Nulla si compie di ciò che è atteso, ma un dio trova la via dell’inatteso».

 

A sottolineare l’impalcatura generale della tragedia ci pensa infine la musica di Germano Mazzocchetti che si serve di una particolare simbologia musicale, un valzer irrisolto e spezzato la cui frase non arriverà mai a concludersi, rimanendo a mezz’aria come un volo interrotto. Il valzer interrotto è un omaggio alla musica del Novecento che anche il regista Calenda ha voluto fare a quanti, musicisti o poeti, attraverso Nietzsche hanno dovuto fare i conti con la categoria del dionisiaco. Questa particolare impostazione musicale, unita ai movimenti affilati e convulsi delle danzatrici del coro così distanti dai canoni classici, altro non sono che la riproduzione simbolica di una felicità ormai in frantumi, esattamente come, senza metafora, è il corpo “frantumato”, smembrato, dell’infelice Penteo. Un intimo conflitto è il suo, mai troppo personale da non assurgere all’universale tipico della tragedia, se è vero che, come chiosa il traduttore della tragedia Giorgio Ieranò, il teatro greco non è per gli eruditi ma per il popolo che è assolutamente in grado di cogliere il senso delle antiche saghe mitologiche. Ed è così che tanto Penteo quanto Prometeo (o Antigone o Medea) pur nella loro eccezionalità vivono (dis)avventure che riguardano ogni persona, ieri come oggi, nel susseguirsi infinito delle stagioni.



Baccanti
cast cast & credits
 

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 



 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 







 
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