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Non c'è Paradiso per il Dante
di Nekrošius


di Rossella Palmieri
  Divina Commedia
Data di pubblicazione su web 28/05/2012  
Eccolo, finalmente, il Dante moderno, visionario, a tratti spiritato, che sa mostrare al pubblico il lato nascosto dell’animo, ripescando dal fondo quei sentimenti comuni a tutti gli uomini e a tutte le epoche. Il dolore e la lontananza prima di tutto, con i quali presto o tardi si impatta, e violentemente. Poi, neanche a dirlo, il fuoco, anche se da quest’ultimo non fuoriesce una vivida fiamma che illumina ma una più modesta scintilla: chi ha il coraggio di coglierla e di lasciarsi condurre ha la possibilità di scandagliare il mondo di oggi, cupo quando non proprio buio, sicuramente non rischiarato dalle apparenti certezze che ci illudiamo di vedere.

Benvenuti all’Inferno, verrebbe da dire. A sipario aperto un globo nero da una parte e una parete translucida dall’altra danno l’esatta percezione dello smarrimento, soprattutto perché contro il muro le anime dannate – ma sarebbe più opportuno dire i corpi pulsanti – cozzano violentemente. La selva oscura del terzo millennio è tutta lì, nell’impedimento a procedere, nella parete che sbarra la strada non meno delle tre fiere dantesche.

Un momento dello spettacolo
Un momento dello spettacolo

Il regista lituano Eimuntas Nekrošius, già premio Europa e grande interprete dei classici della letteratura e del teatro russo, da Cechov a Tolstoj, ha scelto il Teatro Verdi di Brindisi per l’anteprima mondiale (sarà poi allo Storchi di Modena) della sua Divina Commedia. Con un linguaggio teatrale sapientemente dosato è riuscito a condensare in quattro ore e mezza – che in realtà scorrono veloci e danno la sensazione allo spettatore di essere parte integrante del viaggio – alcuni canti dell’Inferno e del Purgatorio, ma tralasciando il Paradiso. Rimanere al di qua della soglia dell’indicibile è già una scelta poetica, tanto più se supportata dall’oggettiva difficoltà di condensare tre cantiche in una sera.

Nella messa in scena Nekrošius si comporta quasi come un chimico, cercando di fondere tutto nel minor numero possibile di passaggi per non rischiare di perdere e far scivolare dalle mani la preziosa materia lavorata, frutto di una ricerca, di una sintesi, di una caratterizzazione e di una purificazione. Come, appunto, si fa nella chimica. Nell’opera, senz’altro difficile da portare in teatro – che ha strumenti ma anche limiti – vengono mescolate prima di tutto lingue diverse: i versi, declamati in lituano, sono sovratitolati in italiano (il testo dantesco è stato tradotto in lituano da Aleksys Churginas). Lì dove la parola non riesce a riprodurre il suono spesso ineffabile dei versi il regista si affida al gorgheggio quasi impalpabile di Beatrice, una convincente Ieva Triškauskaitė che gravita con aerea leggerezza sullo smarrito Dante, il bravissimo Rolandas Kazlas, già noto al pubblico italiano per l’interpretazione di Iago in Otello.

Un momento dello spettacolo
Beatrice (Ieva Triškauskaitė) e Dante (Rolandas Kazlas)

Sulla lingua ma anche, inversamente, sul silenzio, Nekrošius spiega il suo punto di vista. «C’è il linguaggio poetico ma anche la laconicità, perché l’opera conferisce una libertà creativa tale che non sai nemmeno come gestirla». Ed è presto detto: la vis espressiva si declina in varie modalità sul palcoscenico: un oggetto, un movimento, persino la gradazione cromatica dei costumi, ridotti all’essenziale e del tutto moderni, servono a dilatare lo spazio della rappresentazione e a inglobare lo spettatore all’interno del testo per far sì che partecipi e venga indotto a riflettere sull’esperienza più forte e viscerale dell’Inferno, che non sta tanto nella sofferenza fisica quanto nella nostalgia del legame con i propri cari. E se su questo aspetto il regista fa una lieve virata sul comico – i dannati spediscono lettere ai vivi imbucandole in una cassetta postale – non vi è dubbio che gli ‘amorosi sensi’ tra chi c’è e chi non c’è più si ritrovano nella speranza di sapere che nulla svanisce e che corpo, anima e pensieri sono un continuum che sopravvive nelle personali interiorizzazioni. Proprio su questo punto nevralgico Nekrošius deve fare i conti con i limiti intrinseci del teatro, confidando sul fatto che «il pensiero creativo non necessariamente ha bisogno di materializzarsi. L’importante è conoscerlo». Lì dove neanche questo è sufficiente si può fare affidamento sulla laconicità che dà la possibilità di afferrare l’essenza dell’opera. «La laconicità incoraggia il pensiero». Per questo motivo il regista lituano gioca molto sui concetti, sulle metafore, sui simboli e su una certa semantica musicale: per esprimere, ad esempio, la condizione del perpetuo agitarsi delle anime dannate si serve del rullo del tamburo, mentre il ritornare «a riveder le stelle» è accompagnato dal suono soffuso del violino. La materia dantesca, del resto, è troppo pregnante per poter essere ridotta a mera parola, e il viaggio nell’oltretomba è per sua essenza muto, strozzato; efficace, in tal senso, è la disperata afasia di alcuni personaggi quando si trovano a tu per tu con una drammatica presa di coscienza.

Un momento dello spettacolo
Scena di gruppo della Compagnia Meno Fortas

Lasciata assolutamente da parte la tematica politica (Nekrošius ammira il Dante dissidente ma non intende, non su questo livello almeno, cercare delle analogie con i nostri tempi), l’interesse convoglia tutto verso un punto-fuga che dalle tenebre porta alla luce, anche se per approdare ad essa occorre immergere i protagonisti in una sorta di trance per fare in modo che la sofferenza fisica diventi una corrente, un fiume lungo il quale il corpo deve scorrere per potersi ritrovare. E nella direzione del ritrovamento (con)fluisce anche il rapporto tra Dante e Virgilio, il convincente Vaidas Vilius: tra i due vi è spesso un corpo a corpo tale che lo spettatore arriva quasi a percepirne l’urto dirompente.

Se parola, musica, gorgheggi e afasia nella loro astrattezza fendono l’aria, nondimeno la Divina Commedia è attraversata anche da strati di prorompente fisicità. Corpi agili e vibranti, occhi spiritati e movimenti a volte drammaticamente scomposti e convulsi sono lì a testimoniare il dramma delle anime dannate in eterno; di tangibile c’è che il ‘gioco’ scenico non tradisce o  sminuisce mai lo spessore visionario dell’opera ma lo riporta – come fa il chimico versando liquidi in bicchieri capienti per poter ‘vedere’ il risultato – alla visione sognante del regista. La riuscita dello spettacolo, infine, sta anche nelle figure dei co-protagonisti, dal Messaggero (Paulius Markevičius) a Pia (Jurgita Jurkutė), passando per Vanni Fucci (Darius Petrovskis) e Brunetto Latini (Simonas Dovidauskas). Accompagnati dalle musiche di Andrius Mamontovas, tutti gli attori si muovono con perizia e disinvoltura tra le scene disegnate da Marius Nekrošius e nei costumi di Nadežda Gultiajeva.

La coraggiosa avventura del regista lituano sta anche nella scelta complessiva dei ruoli e delle risoluzioni sceniche: i giochi di colore, i contrasti luce-ombra, l’impiego di oggetti minimali eppure efficaci si prestano a un’estensione infinita di riferimenti intertestuali. E mai lo spettatore, per tutta la durata dello spettacolo, viene lasciato solo: il declamato, la gestualità e la mimica facciale coinvolgono e abbracciano senza ridurre l’opera a una sofisticata eppur sterile sciarada, rischio che poteva annidarsi dietro l’angolo.

Già dal primo verso dell’Inferno, scandito con particolare durezza ed enfasi da Rolandas Kazlas, l’inventio teatrale si metamorfizza in una raggelante meditazione sui grandi temi dell’uomo, sulla vita e sulla morte, sul corpo e sulla dissoluzione della materia, senza che quest’ultima mai tracimi nel pulp. Del resto si sa: per «riveder le stelle» non ci sono scorciatoie. Bisogna confrontarsi con le strettoie insidiose e  strada facendo – esattamente come fa Dante – alzare sempre di più il livello cognitivo e continuare a cercare anche quando la selva si fa più oscura, forti del fatto che tutte le operazioni di chiarezza non riposano nella luce ma in quel limo nero depositato nel fondo, di cui occorre percepire la fecondità per far sì che «l’erranza» arricchisca e non prosciughi. E la modernità di Dante declinato da Nekrošius sta proprio nella sottolineatura delle umane traversie, che di penombra sono impregnate. Ma è proprio questa ‘situazione’ cromatica il punto ideale per vedere la luce: come dice Calvino nel testo Dall’opaco è delle macchie d’ombra che bisogna tener conto. Solo loro, forse, sono in grado di (ri)svegliare la bellezza che dorme dentro di noi.





Divina Commedia
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