«Dovresti
scrivere un libro, non un saggio o un articolo, ma un romanzo, perché è nei
romanzi che si vede la grande Storia». Sono
grossomodo queste le parole che verso la fine del film il professor Bernard (Denis Podalydès) rivolge a Jacques
Cormery (Jacques Gamblin), tornato
nella sua terra dorigine, lAlgeria, in un percorso a ritroso sulle tracce del
padre, oltreché in veste di giornalista e scrittore, su invito degli studenti dellUniversità.
Gianni Amelio sembra aver raccolto
questo stesso appello, come del resto Albert Camus, autore del romanzo
(omonimo) incompiuto e fortemente autobiografico, dal quale è tratto il film.
La Storia che vediamo “di sbieco”, attraverso il viaggio di Jacques lungo il
filo della memoria, è quella dellAlgeria della fine degli anni Cinquanta e della
lotta per lindipendenza dalla Francia (raggiunta nel 1962). Amelio, Cormery e
Camus si sovrappongono e si confondono così in un gioco di specchi che, mentre
attiva il discorso metalinguistico che ne consegue, ci parla dellAlgeria di
ieri, ma anche di quella di oggi, se è vero che occorre saper leggere il
passato per poter interpretare il presente.
Nelle
scene dedicate allintervento presso lUniversità e agli attentati, il regista
sembra debitore della visione che, della questione algerina, dà Gillo
Pontecorvo – ne La battaglia di Algeri
(1966) e, ventisei anni dopo (1992), nel documentario per la televisione Ritorno ad Algeri – per la scelta degli
episodi, ma anche per il taglio visivo scarno e attento alla dimensione
quotidiana.
La
fotografia ocra conferisce alle riprese quella patina dantan che fa de Il primo
uomo un film datmosfere, prima e più che di sceneggiatura. Non a caso ai
dialoghi rarefatti sopperisce linquadratura, la cui durata si dilata, per
restituire al cinema tutta la magia del “racconto per immagini”. Nel suo
pittoricismo, calligrafico eppure mai ridondante, spesso Amelio predilige il reaction shot come filtro del reale, che
vediamo dunque di riflesso, attraverso i lunghi primi piani e le mezze figure
di Cormery adulto, ma anche bambino. Il regista torna infatti a privilegiare lo
sguardo infantile come lente dingrandimento sulla vita e sui sentimenti: un milieu nel quale risulta perfettamente a
suo agio, come già aveva dimostrato con Il
ladro di bambini (1992) e Le chiavi di casa (2004).
Il
film procede con un andamento cronologico discontinuo, non solo alternando
allAlgeria del 1957 quella dellinfanzia di Jacques, ma anche costruendo una
sorta di gioco di scatole cinesi, in cui - di flashback in flashback -
arriviamo alla nascita del “primo uomo” del titolo, lo stesso Jacques appunto,
ma anche ognuno di noi, con la sua piccola storia persa in quella con la “S”
maiuscola.
Mediante
brevi movimenti, per lo più agganciati a un personaggio, la macchina da presa
sonda lo spazio. Così accade che visitiamo la casa in cui abita la madre
seguendo in una stanza Jacques, poi la donna; così è legati a Cormery bambino
che scopriamo lassolata estate algerina, nella splendida sequenza “lirica”
sulla spiaggia. Altrove, nel quadro vuoto, irrompe la figura a dare vita
allambiente. È quanto succede già nella prima inquadratura del film: nel campo
lungo fuori fuoco sulla distesa di lapidi al cimitero, irrompe allimprovviso,
entrando da sinistra, il becchino, che dialoga con Cormery. Questultimo,
trovandosi di fronte a lui – e dunque fuori campo, in un punto imprecisato
dietro la macchina da presa – costringe linterlocutore a uno sguardo quasi in
macchina. Più avanti Jacques bambino corre a perdifiato per le scale: la mano
entra nel quadro vuoto del corrimano, poi apre la porta dellappartamento del
maestro e quando la oltrepassa è già lacclamato giornalista occidentale che la
sua terra dorigine ora disconosce, ammira, applaude e rifiuta, per le
posizioni pacifiste espresse in merito alla lotta per lindipendenza. Davvero
indovinato anche lespediente che traduce la morte dellaustera nonna, con la
voce degli abituali rimproveri che si affievolisce sempre più. La stessa nonna
che vediamo protagonista della scena metacinematografica in cui il nipote fa
del suo meglio per leggere a lei analfabeta, i titoli del film muto che stanno
guardando. Ancora di metalinguaggio è lecito parlare, allorché il maestro
mostra agli alunni una serie di diapositive sulla prima guerra mondiale, nel
corso della quale Jacques, come Camus, ha perso il padre. Attraverso piccoli
giochi di regia come questi, mentre “fa sentire” il mezzo cinematografico, il
regista riesce a dare a un film sostanzialmente biografico quel brio che
avrebbe potuto risolversi nella piatta descrizione di una serie di eventi
personali, peraltro poco significativi. E invece sin da quella prima
inquadratura è chiaro il doppio binario sul quale stiamo viaggiando, guidati
dallautore cinematografico certo, ma in primo luogo dalla prosa secca e
insieme descrittiva di Camus: da un lato la ricerca delle proprie origini, che
sbilancia la narrazione sulla vicenda privata; dallaltro la grande Storia,
quella di un Paese diviso e in cerca anchesso dellintegrità primigenia. Il
regista, licenze cinematografiche a parte, dimostra così di aver compreso a
pieno le ragioni più intime che animano il romanzo, non soltanto su un piano
per così dire sintattico – per cui mutua dalla scrittura camusiana la forma asciutta
eppure fluida e ricca di dettagli allo stesso tempo – ma anche a un grado
superiore: quello sentimentale e ideologico. Ritroviamo così, tra i motivi cari
alla poetica dello scrittore francese, la guerra come assurdo che snatura
lUomo, tanto ben espressa nelle Lettere
a un amico tedesco (1943-44): «è vero che ora siamo nemici?» chiede a un
tratto lanziano amico di sempre a Jacques. Questi significativamente risponde
scuotendo appena il capo e lasciando idealmente la risposta al maestro Bernard,
verso la fine: «si può stare dalla parte dei barbari», che è più e oltre il
mero pacifismo, in un gesto di comprensione che si allontana dalla tolleranza
per andare verso la condivisione.
Offre
lineamenti e gesti a ragioni tanto ricche e varie, un cast internazionale che
annovera fra gli altri Maya Sansa
(Catherine Cormery, 1924), lunica pur brava interprete italiana, mentre nel
doppiaggio intervengono nomi di spicco come Pierfrancesco Favino, che presta la voce a Cormery adulto, Kim Rossi Stuart, Sergio Rubini, Ricky
Tognazzi e Giancarlo Giannini.
Quanto a Jacques Gamblin, la maschera del volto, attraverso impercettibili slittamenti
mimici per lo più delegati allintensità dello sguardo, riesce a far vibrare di
pathos le espressioni e i gesti
quotidiani, sui quali indugia il film. Sorprende che altrettanto discreta,
minimalista e priva di sbavature possa essere anche linterpretazione di un
bambino, come lo è Nino Jouglet (Jacques
Cormery bambino).
Amelio
non poteva scegliere chiusura migliore per un film suo malgrado incompiuto,
come il libro dal quale scaturisce: una finestra si chiude, mentre il finale
rimane aperto non tanto sulla grande Storia – che è quella ormai nota allo
spettatore di oggi – e nemmeno sulla storia con la “s” minuscola – le singole
esistenze e la vicenda di Jacques Cormery, nello specifico che ci riguarda –
quanto piuttosto sulla possibilità che la prima impari dalla seconda a non
tradirne i principi di fondo, in un perverso meccanismo autolesionista.
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