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Medea Blues

di Elisa Uffreduzzi
  Maternity Blues
Data di pubblicazione su web 01/05/2012  

Presentato alla 68ª edizione del Festival di Venezia (sezione Controcampo italiano) e tratto dalla pièce teatrale From Medea, di Grazia Verasani (2001), Maternity blues affronta con coraggio il tema dell’infanticidio, in un film dal taglio documentaristico, per la sospensione del giudizio applicata alla narrazione e la scarna fotografia (Francesco Carini). Al contrario la regia di Fabrizio Cattani sceglie un modus operandi che nonostante il minimalismo di fondo indulge a tratti in virtuosismi gradevoli e misurati, i quali, attraverso l’enfasi del decorativismo, recuperano alle vicende narrate la dimensione mitico-euripidea, evocata sin dal titolo del testo teatrale. A svelare quanto quello della madre infanticida sia tutt’oggi un tabù sociale, è il fatto stesso che per trovare una matrice storico-mitologica e artistica si debba far riferimento a un precedente vecchio di secoli: segno questo non tanto della povertà immaginativa e poetica dei decenni a seguire, quanto piuttosto dell’ampiezza di un rimosso che si è andato dilatando, di pari passo alla maturazione e al preteso progresso della società occidentale.

Senza voler fare del femminismo spicciolo, è innegabile che grazie e a causa dell’emancipazionismo secondo-ottocentesco (per il quale le donne del tempo lottarono orgogliosamente), a una donna oggi sia richiesto di essere tante in una. Sotto la spinta di istanze diverse e spesso anche in contraddizione tra loro, il prototipo femminile della contemporaneità è una sorta di mostro a più teste e dalle mille braccia: il fisico della velina perennemente adolescente, servizievole come una geisha, donna in carriera come la Melanie Griffith del film omonimo, la verve di una delle tante ironiche presentatrici comiche televisive, ma anche brava in cucina come una concorrente de La prova del cuoco, estroversa, versatile, dolce, attraente, competente, seducente, forte, sicura di sé… e certo, anche e soprattutto, ancora, madre.



  ©2010 Ph. Nicola Giannotti

In un contesto siffatto la mamma della tradizione mediterranea che abnega se stessa per i figli, si rivela una figura in evidente contrasto con gli altri mille ruoli che le sono richiesti dalla società che lei stessa ha contribuito a forgiare e ai quali del resto una donna oggi non vorrebbe neanche rinunciare. Una simile dissociazione non può non generare un monstrum, più di uno a quanto pare: sono queste le protagoniste di Maternity blues, vittime di un’errata e ipertrofica “distribuzione delle parti” e certo, anche di se stesse. Ambientato in un ospedale psichiatrico giudiziario, il film racconta con distacco e finanche comprensione, le storie delle sue pazienti, soffermandosi in particolare su quattro di esse. Clara (Andrea Osvart), la protagonista, è il Virgilio che ci guida lungo i gironi di questo “viaggio infernale”. Non a caso l’ospedale ha una struttura architettonica circolare, con i piani che si affacciano ad anello sul cortile interno, lo stesso in cui si svolgono le sedute di gruppo – di nuovo, in cerchio – spesso riprese in plongée, come anche il cadavere di una delle madri assassine.

Fabrizio Cattani realizza un film che nonostante l’intuibile povertà di mezzi, sa “fare di necessità virtù” e sfruttare al meglio l’ambientazione claustrofobica, attraverso la sapienza registica. A partire dall’inquadratura iniziale in cui, dallo sfarfallio fuori fuoco del finestrino di un treno in corsa, emerge il profilo in primo piano di Andrea Osvart, lo stesso che tornerà in chiusura del film, poco prima dell’efficace didascalia su fondo nero: «quanto possa essere ostinato e resistente il cuore di una donna». Una scelta visiva che traduce in immagini il senso di profonda solitudine e allucinazione della protagonista. Riuscita anche la sequenza che circa a metà del racconto offre una sorta di “specola” sulle vite dei vari personaggi, dentro e fuori dall’ospedale, imitando il mascherino a tendina attraverso la dissimulazione degli stacchi di montaggio: efficace metafora della vita che comunque, ostinatamente, va avanti, in un continuum indifferente alle singole esistenze. Decisamente convincenti anche le inquadrature subacquee che “amplificano” in una scena onirica la vasca nella quale Clara ha immerso in realtà il solo volto, restituendo così al pubblico la percezione della sua alienazione e di un senso di colpa onnipresente e insormontabile. Cattani fa anche un uso intelligente e parsimonioso del flashback, nella duplice modalità visiva – sono le inquadrature che ripropongono il vissuto delle protagoniste con i figli ancora in vita – e sonora – con la voce over di un personaggio, il figlio di Luigi (Daniele Pecci) nella fattispecie, che dal passato parla di un futuro negato.  Peccato per quella caduta di stile a tre quarti della narrazione: la scena in cui Eloisa (Monica Birladeanu) canta la canzone dedicata al figlio durante la festa di Natale, in un attimo sprofonda nel buonismo e nel patetismo un film duro e garbato al tempo stesso. Senza contare il fatto che la voce dell’interprete d’un tratto risulta eccessivamente pulita, svelando così le pecche del missaggio; mentre il movimento circolare della macchina da presa intorno alla coppia che balla prima e poi sui volti commossi attorno, afferisce a un’estetica da videoclip che abbassa sensibilmente il tono, anche visivo. Bravi gli interpreti, tutti, tra i quali merita una menzione speciale Marina Pennafina, per la verità che è capace di infondere alla sua Vincenza.


Sorta di tranche de vie cinematografica, Maternity blues ci consente di fare un tratto di strada accanto a queste donne-mostro, restituendo loro l’umanità che si sono negate compiendo un atto che è frutto di una volontà di annullamento, piuttosto che di punizione dell’altro. Appaiono così, più che carnefici, vittime di un contesto sociale che, al di là delle mille parti che assegna a ognuna, le riconosce ancora soltanto, o comunque in primo luogo, come madri. Negando la condicio sine qua non (l’esistenza dei figli) del loro ruolo di madri, esse annientano in realtà se stesse, in un sorta di contrappasso autoimposto, il cui fio si rinnova, insostenibile, ogni giorno. 




Maternity Blues
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