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Radiografia d’una società demenziale

di Gianni Poli
  Ciò che vide il maggiordomo
Data di pubblicazione su web 20/04/2012  

Facilmente si dimenticano autori che a loro tempo fecero scalpore, come Joe Orton: il drammaturgo inglese scandalizzò, da vivo, con Entertaining Mr. Sloane (1964) e con Loot (1967) il suo primo pubblico; da morto, con la rappresentazione postuma di What the butler saw  (Ciò che vide il maggiordomo) nel 1969, sulla quale intervenne la censura. Il tempo poi riduce la reattività alle provocazioni di un’opera che subisce via via giudizi più distaccati. Nel caso di Orton, restano comunque soprattutto il linguaggio e una struttura di tale sapienza compositiva e sintetica di generi e di modi drammaturgici, da fornire un bel banco di prova a registi e attori.

                                          

Giorgio Gallione (artefice, in stagione, di Tinello italiano) aveva allestito agli esordi Il Malloppo dello stesso autore. È quindi al secondo confronto con una commedia di notevole, irriducibile carattere, dalla quale raccogliere una sfida creativa stimolante. Vi cerca ed introduce ritmi propri, inediti rapporti fra i personaggi, vivificati da reazioni originali; così che dalla fantasia dell’autore, quella del regista e dei suoi collaboratori ottenga la concretezza di una visione attuale, nella coerenza di motivazioni riconoscibili, altrimenti destinate a confondersi nei molteplici paradossi e ridondanze del testo originale. Gli spunti tematici disparati e le storie particolari vengono così ricondotti a maggiore unitarietà scenica.
 


M. Pirovano, U. Dighero e M. Torres. Foto B. Caroli

 

La commedia si apre con la scelta d’una dattilografa da parte del dottor Prentice per il suo studio psichiatrico. Segue l’indagine per il recupero di un reperto perduto dall’effigie del Premer politico, operazione segnalata come gravida di conseguenze sull’ordine pubblico; e si assiste al menage di coppia del dottore e della moglie. L’ambientazione è in una clinica, che sembra raffigurare l’intera società, non tanto circoscritta agli anni Sessanta, quanto nostra contemporanea. In tanti registri e motivi coesistenti e sovrapposti, varia la profondità e la pregnanza delle allusioni e delle immagini, dall’analisi alla satira e alla mimesi dei comportamenti. S’evidenzia pure la ricerca (autobiografica?), ardua e frustrata, d’una sapienza personale intima, in una situazione giudicata di follia collettiva nonché segnata da malafede diffusa.

 

Lo spettacolo pone in primo piano la forza dell’azione, sottolineandone la visibilità smaccata e il concatenarsi di dialoghi brillantemente provocatori. Così il ritmo (escluso ogni commento musicale, se non due brani citati dai Beatles) s’avvia dall’urgenza intrinseca ai moventi impulsivi dei protagonisti, espressi in una lingua di crudo verismo eppure attagliati a modelli di classica fattura, ripresi da Shaw o Wilde e sfruttando meccanismi di collaudata tradizione. Ecco il travestitismo, necessario per l’occultamento della menzogna, dell’ipocrisia, più che sintomo di vera inclinazione perversa. Lo schema da vaudeville s’impone nelle incessanti entrate e uscite dei personaggi colti in equivoco o in colpa flagrante. Anche il motivo poliziesco si dipana e si sfoga, con gli inseguimenti, gli spari e i ferimenti, che precedono la conclusione. Essa concede anche l’agnizione per una trama di remoti incesti segreti, causa di legami riconosciuti e ricomposti in una tolleranza inaudita e improbabile anche ai giorni nostri.

 

Esercizi di stile in scena, quelli diretti da Gallione con molta connivenza degli attori, in piena interazione di un divertimento reciprocamente goduto. Ugo Dighero ricorre a mascheramenti, più maldestri che maliziosi, delle sue tendenze o debolezze e usa formalità professionali, in gesti e gaffes puerili. Già in lotta impari con la moglie - una Mariangeles Torres fisicamente aggressiva nel costume sado-maso - sarà sovrastato dall’intraprendenza del dottor Rance, ispettore inviato da un’autorità superiore, aberrante fino alla patologia. Antonio Zavatteri ne assume il ruolo in tutta l’esaltata presunzione e mediocrità di uno psichiatra-tuttologo, dalle ambizioni formulate in iperboliche asserzioni pseudoscientifiche: è lui il pazzo più autentico, che espone da un podio risibile le sue diagnosi, i suoi discorsi programmatici deliranti. Geraldine è la (troppo) ingenua aspirante segretaria - succube e un po’ complice nella visita d’accertamento che il dottore spinge all’abuso - di cui Mariagrazia Pompei rende la duttilità, nei graziosi sensuali stupori e nei più energici rifiuti, tipici della sua fresca età. Pier Luigi Pasino è Nick, un boy d’hotel punk, avventuroso e impertinente profittatore, anch’egli trascinato dalle irrazionali circostanze. Mauro Pirovano indossa quasi fosse una maschera, o una marionetta, il suo Sergente, d’ossequiosa formalità e irresponsabilità compiaciute, come conviene a una parodia (in)controllata dell’Istituzione. I costumi, come i dettagli scenografici, sono marcati nell’iperrealismo: abiti o biancheria intima dai particolari vistosi, segni di un feticismo latente, ma ridotto a esibizionismo, funzionale all’apparenza nella convenzione sociale più rozza. 
 


A. Zavatteri e U. Digheri. Foto B. Caroli
 

Molto inquietanti i tulipani che nel giardino e nei vasi reagiscono in erezione, in sintonia agli stati d’eccitazione manifestati dagli umani e che infine invadono lo studio, già affollato e sconvolto. Invasione allegra e minacciosa (nel gusto di certi quadri viventi dada o surrealisti) di un locale tappezzato da lastre radiografiche e che oltre al lettino dell’analisi, espone degli scheletri-manichino. Una luce fissa, uniforme, crudamente rivela ciò che invano ciascuno, di sé, preferirebbe occultare. E in quella luce, il finale raggiunge un crescendo dinamico, dapprima esagitato e convulso; indi più riflessivo e consuntivo, poiché si rifà al finale ridotto e serrato adottato nella storica «prima» censurata. Geraldine scopre il contenuto della scatola, che sorprende per la sua banalità e delude l’attesa di rinvenirvi il mitizzato attributo maschile. All’esclamazione: «Ma è un sigaro!», il monito: «Benedetta innocenza!» resta per sempre ambiguo, inadeguato e più radicalmente efficace.

 

Con questa Compagnia, di nuovo formata all’occasione dalla fusione di due Teatri genovesi, Gallione coglie un bel successo, grazie alla fedeltà confermata alla sua prima intuizione, nella quale segnalava «compresenza di commedia e minaccia; satira e follia […]. Il teatro di Orton è apologia del caos, comicità anarchica e dissacrante dell’allucinata e bigotta realtà dei nostri tempi». E davvero la congestione schizofrenica, la sovreccitazione contagiosa dilagante in scena, finisce per  propagarsi in risate frequenti, sonore, nella sala.




Ciò che vide il maggiordomo
cast cast & credits
 
 
 
 
 
 

Ugo Dighero 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

  


Ugo Dighero e Mariagrazia Pompei


 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


 


Pier Luigi Pasino e
 Ugo Dighero


 

 

 

 

 

 




 

 
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