Portare in scena un
monologo implica sempre una buona dose di coraggio. Quando poi i monologhi si
presentano uguali a sé stessi dallinizio alla fine, senza un fremito, senza un
cambio di passo o un colpo dala di regia, allora il coraggio diventa temerità.
Parrebbe il caso di È stato così di Valerio Binasco, adattamento
dellomonimo romanzo breve di Natalia
Ginzburg, protagonista Sabrina
Impacciatore.
Una noia, verrebbe da
pensare. Non tanto per il testo della Ginzburg, che pure dimostra gli anni che
ha (la prima edizione Einaudi è dellimmediato dopoguerra); quanto per la regia
volutamente statica di Binasco. Che non concede nulla, in apparenza almeno,
allo spettatore.
Si entra a teatro e il
sipario già aperto svela tutto ciò che si vedrà per unora filata di spettacolo:
un pannello rivestito con una tappezzeria a fiorami pastello, una sedia, un
microfono con asta collegato a un amplificatore a vista, una lampadina penzoloni,
due faretti. Poche note di pianoforte ed entra la Impacciatore, si siede. Spalanca
occhi e bocca, le gambe leggermente divaricate scoperte dal vestito corto, le
braccia aderenti al corpo. Immobile, senza mai scomporsi, apre il rubinetto
della coscienza in una confessione fiume interrotta appena da pause strozzate.
È una donna che ha amato, non corrisposta. Una donna-bambola sporca di trucco,
immobilizzata nel fatalismo di quel gesto, lomicidio, compiuto sul marito, da
sempre innamorato di unaltra. E ancora: un figlio perso, e bocconi amarissimi
mai davvero inghiottiti.
È stato così di Valerio Binasco con Sabrina Impacciatore
Bruciato nellincipit lunico colpo di scena (lo sparo
di pistola), il monologo procede tutto di gola, senza virgole né
sorprese, in un climax al contrario,
che riavvolge il nastro del racconto per poi avvitarsi, di nuovo, sul gesto clou iniziale. Un ritmo circolare che
sottende la paranoia. Leterno fermo immagine di ciò che è già avvenuto. Perché
è stato così, appunto.
Eppure, se per tutto
il tempo dello spettacolo in sala non vola una mosca, se alla fine gli applausi
scrosciano fragorosi, un motivo ci deve essere. Sarà che la drammaturgia, apparentemente
assente, cè eccome. Binasco, che proviene dal “teatro di narrazione” di Vacis, che conosce bene la forma del
monologo (si pensi alle Crociate), dimostra
di saper padroneggiare i trucchi del mestiere: azzecca il plumbeo maquillage della protagonista; fa
entrare in scena, al momento giusto, la musica di Arturo Annecchino; drammatizza il finale con il crescendo del
pianoforte e la voce, in dissolvenza, della donna, che ripete, come il
ritornello di una logora canzonetta, la sua storia daccapo. Sarà che la
Impacciatore (messa in campo in sostituzione della indisponibile Rohrwacher) di pathos ce ne
mette, al punto da piangere, in preda alla commozione, a spettacolo finito,
dando prova di stare dalla parte di Stanislavskij.
Sarà, infine, che
quella maschera tragica e quella protagonista rimandano ad altri personaggi, ad
altre storie: ad altro pathos. Ci
viene in mente – non fosse altro che per quelle scarpe rosse, coi tacchi alti,
unico squillo di orgoglio in un corpo desolato – la Penelope Cruz-Italia del Non
ti muovere di Castellitto-Mazzantini. Quel volto sbaffato di colore,
quegli occhi cerchiati di blu e di nero, quelle labbra ingrossate di rossetto
carminio caricano la donna di una drammaticità debitrice di immaginari filmici.
Del resto, per un artista a tutto campo come Binasco, il cinema ha un peso decisivo
(e la scelta della Impacciatore, attrice del piccolo e grande schermo, giunge a
riprova).
Sabrina Impacciatore in una scena dello spettacolo
In breve. Il monologo funziona.
Se infatti è lecito chiedersi lutilità di riportare in vita un testo
sorpassato come quello della Ginzburg (ma molte spettatrici mi smentiranno, avvinte
dai muliebri sentimenti profusi), piace sottolineare come, con pochi tocchi,
Binasco riesca a portare a casa il risultato. A volte basta unintuizione per
far grande uno spettacolo. E limmagine di quella donna svociata, costretta a
ripetere allinfinito la sua storia di dolore, inchiodata al suo peccato e
dannata per leternità come nelle spire di un girone dantesco, pare degna di
fissarsi nella memoria di ogni spettatore.
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