A dodici anni dal suo Giovanna d'Arco, il regista francese Luc Besson torna a ritrarre la vicenda biografica di un personaggio femminile forte e affascinante. Se in quel caso era lascendente storico-religioso a connotare il racconto, stavolta, descrivendo la vicenda biografica di Aung San Suu Kyi, esso assume i contorni di un biopic contemporaneo a sfondo politico, mentre il regista dazione abbandona la rapidità del montaggio per scoprire la lentezza e lo spazio della riflessione. Lo stile appare infatti decisamente nuovo rispetto alla filmografia bessoniana e daltro canto in un ruolo più posato e formale, lautore appare un po a disagio. Difatti, pur rimanendo riconoscibile la fisionomia registica nel magniloquente uso delle masse e dei primi e primissimi piani, manca al film proprio il giusto ritmo, quello funzionale alla godibilità del racconto e che stabilisce il discrimine tra il film engagé e quello solo noioso.
Bellissimi panorami birmani (in realtà tailandesi, dato il divieto di girare nel reale teatro dei fatti) puntellano le riprese, contribuendo a definire il tenue calligrafismo di fondo di un film senza dubbio celebrativo: della leader del movimento democratico birmano certo, ma anche di Michelle Yeoh, che interpreta egregiamente il ruolo della protagonista, accanto a David Thewlis, nei panni del marito, l'inglese Michael Aris. Non si contano infatti i primi piani dedicati alla Yeoh, sintomo inequivocabile della statura divistica dellattrice, oltre che della centralità del ruolo.
La limata fotografia di Thierry Arbogast, al pari della regia, che rinuncia a effetti speciali e vezzi della macchina da presa (come angolazioni di ripresa inusuali o movimenti di macchina fini a se stessi), è completamente al servizio del racconto, salvo le già menzionate vedute birmane “da cartolina” in cui indulge in qua e in là, deliziando la vista del pubblico. Lautore sceglie consapevolmente di rimanere in disparte per lasciar risaltare personaggi e luoghi, protagonisti di una vicenda biografica sì, ma anche storica e politica, già di per sé estremamente ricca di forza ideologica ed emotiva e che risulterebbe solo inutilmente appesantita da una diversa scelta artistica. Lodevole dunque il pudore con cui Besson si accosta a una figura e a un vissuto tanto delicati e complessi.
Dopo un breve accenno allinfanzia e alla figura del padre – il generale Aung San, fautore dellindipendenza della Birmania dal Regno Unito, ucciso nel 1947 e idealmente fondamentale per la formazione e lattivismo politico della leader pacifista – il film focalizza la narrazione sul periodo che va dal ritorno in Birmania nel 1988 e gli arresti domiciliari (1989), al Premio Nobel per la pace (conferitole in absentia nel 1991) e alla tanto sospirata liberazione, avvenuta il 13 novembre 2010.
Se è indubbia la difficoltà di allestire un soggetto tanto ingarbugliato, aggravata dal fatto che tratta un mito vivente e una vicenda politica (quella della democrazia birmana) ancora in via di sviluppo, resta da imputare a Besson una certa goffaggine nellaccostare il tema. Lopera finisce infatti per somigliare più alla cronaca di una partita di calcio, che a un film biografico. Esso si risolve in una lenta paratassi: mera giustapposizione di inquadrature, episodi, eventi politici, mentre manca quasi totalmente la dimensione mitica del personaggio, quel minimo di eroicizzazione della protagonista che giustifichi la realizzazione di un biopic dedicato e ne stabilisca la differenza dal puro documentario. Probabilmente il difetto sta prima e soprattutto nella sceneggiatura di Rebecca Frayn, che ad esempio nei discorsi pacifisti di Aung San Suu Kyi di fronte alla folla accorsa, si fa ossessivamente ripetitiva e ridondante, finendo così per svilire il messaggio trasmesso, mentre lo ribadisce. Si ravvisa inoltre qualche ingenuità nel porre laccento su certi aspetti della vita privata. Manca in fin dei conti una capacità di sintesi funzionale alla narrazione o – se anche cè – è fraintesa, poiché toglie dove non dovrebbe, mentre abbonda dove già cè ricchezza di contenuti.
Il film rappresenta dunque un punto di svolta nella filmografia di Besson, affermando principi registici per lui nuovi, ma la cui validità resta da verificare.
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