drammaturgia.it
Home | Cinema | Teatro | Opera e concerti | Danza | Mostre | Varia | Televisioni | Libri | Riviste
Punto sul vivo | Segnal@zioni | Saggi | Profili-interviste | Link | Contatti
cerca in vai

Inventare il vero

di Paolo Patrizi
  Jakob Lenz
Data di pubblicazione su web 03/04/2012  

 

L’urlo di orrore d’un volto smaterializzato, che nel Grido di Munch aveva aperto le porte all’espressionismo nelle arti figurative, un’ottantina di anni dopo (1979) trovò corrispettivo musicale in Jakob Lenz: il protagonista entra in scena con «un grido disumano tenuto a lungo»; e sarà un incipit tra i più memorabili del teatro lirico di fine Novecento, ma anche l’inizio di un equivoco critico che sancirà la fortuna di questa “opera da camera in dodici quadri e un epilogo” di Wolfgang Rihm e, al tempo stesso, ne drogherà un poco la percezione.

 

Scritta da un Rihm poco più che venticinquenne, e riproposta adesso a Lugo in occasione dei sessant’anni dell’autore, Jakob Lenz è ormai un classico conclamato (degli allestimenti in Germania si è perso il conto e anche in un mercato operistico come quello italiano, poco interessato ai contemporanei, lo si è già potuto vedere a Firenze e Macerata), ma per motivi diversi da quelli che l’imposero nel ’79. Se allora l’impressione era d’un autore che – in anni di asepsi linguistica e teatro musicale antinarrativo – tornava a guardare con fiducia all’espressività quasi materica della musica e al bisogno di una costruzione drammaturgica, oggi Lenz viene visto ora come un nipotino del Wozzeck, ora come un paradigma del proprio tempo: nel primo caso limitandosi alla superficie (il versante espressionista, appunto), nel secondo facendolo confluire in un modernariato (le avanguardie anni Settanta) incongruo per la natura di “conservatore progressista” che, da sempre, caratterizza Rihm.


Il libretto prende le mosse dalla novella di Georg Büchner che ricostruì gli ultimi anni della travagliata vicenda terrena di Jakob Lenz, scrittore senza tetto né legge: e già il transito dal personaggio di Lenz (uno dei grandi precursori del romanticismo in età classica) all’estetica di Büchner (anticipatore dell’espressionismo in piena epoca romantica) pone l’opera su un crinale espressivo stratificato che, in sede esecutiva, sarebbe arduo riassumere sotto un unico ombrello stilistico. Rihm, dal canto suo, innesta una drammaturgia musicale assai mobile (l’organico cameristico consente una zigzagante pluridirezionalità del dialogo voci-strumenti, ardua da ottenere con una grande orchestra) e una scrittura vocale che per i solisti può apparire monotona (i falsetti del baritono, la tessitura acutissima da usare in senso grottesco per il tenore), ma dove l’andamento frastagliato è garantito dal piccolo coro polifonico che riverbera strazio e deliri del protagonista. L’impressione è che Rihm foggi un grande blocco primigenio di musica, facendogli prender forma lungo i vari tableaux dell’opera: un lavoro di sagomatura che trova adesione nel pensiero di Lenz, quando – per interposto Büchner – assicura che «il buon Dio ha fatto il mondo bene, noi non potremmo scarabocchiare qualcosa di meglio» e l’unica via per poeti e drammaturghi è «imitare un po’ il mondo», puntando «al reale e non all’ideale», con cui si dà vita solo «a marionette di legno». Siamo a un dipresso dal precetto verdiano dell’«inventare il vero»: a conferma di quanto Rihm, sotterraneamente, mantenga in vita certi ideali dell’antica tradizione operistica.


Tanta varietà di sollecitazioni si è però risolta in un’esecuzione musicale piuttosto omogeneizzata, e in una messinscena tutta giocata sul versante espressionista. Marco Angius si preoccupa soprattutto – non a torto – di ottenere pulizia e precisione dagli undici strumentisti del Comunale di Bologna (dopo Lugo la produzione approderà nel teatro felsineo): un’orchestra che non include il repertorio contemporaneo nel proprio lessico familiare, e ha ormai perso la duttilità acquistata negli anni Ottanta-Novanta. Bacchetta adusa a un Novecento anche più “estremo” di Jakob Lenz, Angius sa come garantire appiombo e nitore. Ma così facendo il rischio – aggirato solo a tratti – è di ritornare all’asepsi linguistica accennata all’inizio, assimilando Rihm a quelle avanguardie musicali da cui nominalmente proveniva, ma dalle quali, nella sostanza, si discostava.

 

Henning Brockhaus, dal canto suo, realizza una regia di algida violenza e disturbante impatto emotivo che, sotto il profilo teatrale, sono un fertile pugno nello stomaco. Per sottolineare la dimensione da Kammerspiel, e ispirandosi a criteri di sana economicità, opta per una scenografia unica (un fatiscente ospedale psichiatrico: riferimento fin troppo esplicito, date le numerose ambiguità del testo, alla schizofrenia del protagonista); ma la rinuncia alle varie ambientazioni “all’aria aperta” previste dal libretto – le montagne del primo, settimo e nono quadro, il paesaggio incontaminato dell’undicesimo – priva il dramma di quel “sentimento della natura” che per Lenz fu tormento ed estasi, e che rappresenta la dimensione romantica dell’opera. Scarnificata a livido e claustrofobico caso clinico Jakob Lenz perde qualcosa del suo umanesimo, sebbene l’impaginazione visiva resti efficacissima: il lavoro sulla recitazione dei sei elementi del coro è capillare (ciascuno viene trattato come un personaggio a se stante, coerentemente con la scrittura non omofonica ma polifonica del piccolo ensemble); il ricorso ai mimi, per una volta, è efficace anziché intrusivo; la capacità di rendere “vivente” la scenografia – i muri dell’ospedale si trasformano modellandosi in teste e braccia, lasciando emergere larve umane uscite dall’inconscio di Lenz, o del pubblico – è un coup de théâtre della miglior specie.

 

Gli interpreti si prestano con malleabilità alle indicazioni di direttore e regista. Tomas Möwes unisce alla robustezza dell’emissione un falsetto penetrante e il suo Lenz, a suo agio nello Sprechgesang come nel canto spiegato, lascia intuire un baritono da riascoltare con profitto pure in Verdi. La voce acuta e biancastra del tenore Daniel Kirch si direbbe invece più votata al Novecento (ma potrebbe anche essere un Loge interessante). Come che sia, ecco un autentico cantante-attore: e tanto basti. Timbro e volume difettano negli affondi più gravi del basso Markus Hollop, comunque molto empatico nel ritrarre il parroco che tenta, inutilmente, di sottrarre Lenz al proprio gorgo autodistruttivo. Tutti e tre si raccomandano per tenuta ritmica e intonazione, al pari dei sei coristi, in realtà solisti di rispettabilissima carriera: i timbri più fondi spiccano maggiormente (s’impongono il bel colore contraltile di Romina Boscolo e le scure risonanze di Christian Favarelli), ma anche Anna Maria Sarra, Paola Francesca Natale, Anna Sautier e Gabriele Ribis offrono prove di gran duttilità musicale ed espressiva.

 

Jakob Lenz



cast cast & credits

Foto di Diego Bracci
 
Firenze University Press
tel. (+39) 055 2757700 - fax (+39) 055 2757712
Via Cittadella 7 - 50144 Firenze

web:  http://www.fupress.com
email:info@fupress.com
© Firenze University Press 2013