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Una storia di incontri

di Adela Gjata
  La locandina
Data di pubblicazione su web 22/03/2012  

    

«Il teatro è un incontro tra esseri umani diversi, e tutto il resto non conta.» Questa frase di Ingmar Bergman guida le creazioni di Pippo Delbono, la sua idea di teatro e di comunità teatrale. L’attore-regista ritorna sulle scene con i compagni ormai storici del suo percorso artistico, persone provenienti da contesti sociali marginali che – totalmente estranei ad accademie, scuole di recitazione o teorie – vivono il teatro in maniera del tutto singolare, con l’occhio divertito e appassionato, come magia e stupore.

Dopo la battaglia è una sequenza di quadri visivi e visionari, densi di musica, canto, danza, immagini, poesia e pensiero, scanditi dalla fisicità e dalla voce ansimante di Delbono, regista autore e performer di una sperimentazione che oscilla tra il sociale e il personale, l’inventiva fantasiosa e la più cruda realtà. Un'opera che si doveva fare al Bellini di Catania, non andata in porto per i tagli del Fondo Unico per lo Spettacolo e che – rimasta senza orchestra, coro e cantanti – si limita ad usare registrazioni del Macbeth di Verdi, del Lago čajkovskijiano e dei ritmi popolari di Henry Salvador ed Elis Regina. La messinscena percorre i meandri e le contraddizioni del nostro tempo tramite gli scritti di Antonin Artaud, Franz Kafka, Alda Merini, Pier Paolo Pasolini, Walt Whitman, Rainer Maria Rilke e Alejandra Pizarnik, attenuando la gravità dei temi che affronta con digressioni di sorridente ironia. Si spazia dalla condizione nazionale, colta attraverso un incalzante passo dantesco («Ahi, serva Italia, di dolore ostello...») alla storia del contadino e del guardiano che sorveglia la porta della legge nel Processo kafkiano; si riflette su Dio e sull’uomo, si discorre del potere, politico economico e religioso, dei forti e dei deboli, di libertà e prigionia, della perdita dei valori, della solitudine, a ancora di protesta, denuncia e ribellione. Se un filo conduttore c’è, va ascritto al tema della pazzia e dell’isolamento, evocato anche dallo spazio scenico: una stanza vuota, vasta e grigia, con strette porte sulle pareti, un tempo-luogo della mente che si anima dalle parole blasfeme di Artaud («se nessuno crederà in dio tutti crederanno sempre nell’uomo»), dei pensieri profetici della Merini e di Pasolini: brani rielaborati e rivissuti da Delbono con quella verità espressiva e istintiva che gli è propria.

Una scena dello spettacolo
Una scena dello spettacolo

Lo spettacolo oscilla tra apoteosi e denigrazione, tormento e quiete, rabbia e dolcezza, in una lunga sfilata di apparizioni oniriche e travestimenti surreali, pupazzi e statuine viventi, bandiere tricolori, danze tribali e fluttuazioni aeree. Delbono fiancheggia i suoi compagni come voce fuori campo, irrompe in scena, balla con gli spettatori, si confessa con i video proiettati sul fondale. Sono immagini ‘scorrette’ le sue, realizzate col telefonino: inquadrano ora il mare schiumoso che egli dirige come nel celebre concerto muto di John Cage, ora i particolari ‘sgradevoli’ dei manicomi e ancora i primi piani disidratati degli africani ammassati in stretti gommoni sulle coste di Lampedusa. E siccome ogni messa in scena è per Delbono una tappa del proprio viaggio di vita, ritorna in quest’ultima opera il lato personale e intimo, con le immagini della madre impegnata a preparargli un abbondante piatto di pansoti mentre istiga il figlio a inserire un po’ di gioia e buona fede nelle sue creazioni.

Pippo Delbono
Pippo Delbono

Delbono si sforza difatti di attenuare il tono cupo dello spettacolo, o almeno ci prova, con degli intermezzi da avanspettacolo che recano la sua inconfondibile impronta. Ecco che al ritmo di canzoni popolari francesi danzano il paperino rosso e il clown luccicante d’argento di Gianluca e Bobò, si esibisce il Charlot di Nelson Lariccia, bombetta nera e bastone acrobatico, e si ostenta l’esilarante parodia della biondissima neosindaco di Marano (Reggio Emilia), nella serata inaugurale di Poesia Festival. Ma i veri squarci di luce risiedono nell’arte di tre ospiti speciali, vecchi e nuovi amici che Delbono porta dentro la sua opera: la malinconica e struggente poesia del violino di Alexander Balanescu, compositore e fondatore del Balanescu Quartet, il fluttuante cigno bianco di Marie-Agnès Gillot, étoile dell’Opéra di Paris, il tempestoso antagonista nero di Marigia Maggipinto, allieva di Pina Bausch, eterea e passionale nella danza delle rose rosse.

Scena della danza delle rose rosse
Scena della danza delle rose rosse

Come nella precedente Menzogna (2010) è ancora Bobò, il sordomuto analfabeta artefice della rinascita di Delbono, a portare pace tra i fantasmi che popolano la mente del regista. Lo vediamo nell’ultima scena circondato dalle protagoniste femminili, di rosso vestite, che lo stuzzicano giocosamente. Si conclude così uno spettacolo composito, anticonvenzionale, provocatorio e sinesteticamente coinvolgente che - nonostante la suggestione evocativa dei quadri e la forza poetica dei testi - ha il sapore del già visto e sperimentato e non aggiunge novità all'opera di un’artista fuori dai canoni come Delbono.

 

Dopo la battaglia
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