Chi si appresti a staccare il biglietto del nuovo spettacolo di Franca Valeri con lo spirito del visitatore del Madame Tussauds, sbaglia di grosso. Il monumento cè, ma senza un rivolo di cera. Gli acciacchi delletà non bastano a frenare la vitalità di quel corpicino dattrice dinfinita classe, sovraesposto con lelegante (auto)ironia che è un marchio di fabbrica. Il critico può dunque tirare un sospiro di sollievo: niente zelante deferenza per il genio che fu, perché lartista è lì, nella sua verve intatta, freschissima, pronta una volta ancora a offrirsi allamato pubblico, replica dopo replica, in barba alle novantuno primavere, quasi novantadue.
Franca Valeri (Matilde) in Non tutto è risolto
Con Non tutto è risolto la Valeri si (ri)mette in gioco due volte, firmando un testo zeppo di brillanti battute sul filo del paradosso, a metà tra Beckett e Wilde, da far invidia allAllen delle migliori scritture, e indossando i panni (sartoriali) della protagonista, la contessa Matilde. Un personaggio che difficilmente dimenticheremo: una eccentrica nobildonna dal linguaggio forbito e laria demodée, senza più un soldo e al crepuscolo della propria esistenza, che vive lultimo giorno come se fosse il primo, ripartendo ogni volta da zero, con le spalle cinicamente girate al passato. Il suo “vuoto giornaliero” da riempire è una casa in cui un tempo ha abitato (forse), in un sontuoso quanto decrepito palazzo seicentesco abbandonato, occupato solo da una stufa austriaca in maiolica, tragicamente spenta. Accompagnata dallinseparabile segretaria Angèle, Matilde incontrerà nellabitazione la cameriera Milli (che è in realtà una sarta, o meglio una pantalonaia), e un figlio (un figlio?) di nome Manfred, dimenticato come un ricordo che non vale la pena ricordare.
In tempi di crisi è lo stile a far la differenza – sembra dire anzitutto Matilde al lettore-spettatore («Sei al verde contessa?» insinua Manfred. «Non è il mio colore», ribatte, secca, lei). Sono gli antichi codici di una società in via di estinzione, da appuntare sul petto con orgoglio (scoprendo, divertiti, che il dare del “lei” non è snobistico, è piuttosto un mettere le distanze nei rapporti interpersonali per favorire la riflessione). Lantico e il nuovo convivono in Matilde senza risolversi. Né giovane né vecchia («letà non mi ha mai dato unimpronta»), la contessa si erge a cavalluccio della memoria aprendosi instancabilmente alla vita, alle sue sorprese, rifiutando schemi e programmi, giocando esorcisticamente con la morte (a proposito: qual è il significato del verbo concludere?). Impossibile non scorgere in lei autoproiezioni della stessa Valeri. E non solo per via degli ammiccamenti metateatrali disseminati nella commedia («Io avrei dovuto fare lattrice, entro subito nei ruoli», soggiunge, non senza un fondo di civetteria, la contessa). In quella signora daltri tempi con il gusto per il nonsense (sensatissimo) Franca Valeri mette a nudo sé stessa, le sue fragilità e i suoi punti di forza, senza bluff, senza plastiche facciali né lifting dei sentimenti. Unico filtro, lautoironia. Lucidissima.
Franca Valeri in una scena dello spettacolo
Eccola dunque in scena, Franca alias Matilde, con la voce incerta e il fisico fragile eppure orgogliosamente impettito. Guidata dal fidato Giuseppe Marini (che laveva già diretta nelle Serve di Genet, oltreché nel suo Carnet de Notes), la presenza della Valeri è sottolineata caricaturalmente come dalla matita di un vignettista: il cappottino di pelliccia color crema, il tailleur elegante «di modista», la borsetta a mano, il cappellino blu elettrico pennellato in testa. Cipria in viso e smalto nello humour: tempi comici mandati a memoria, arguzie infilzate luna dietro laltra che arrivano allo spettatore anche quando la voce, a tratti, si perde. Intorno a lei, un crocchio di attori di lusso: la Angèle di Licia Maglietta, dalla recitazione impeccabile anche se un po troppo impostata (gusto personale); la Milli dalla vena popolana di Gabriella Franchini (che fa il verso alla sora Cecioni, godibile gioco citazionistico); il Manfred aristocratico e sessualmente ambiguo di Urbano Barberini, dissimulato in scena e scoperto allimprovviso per lunico coup de théâtre concesso allo spettatore.
Il cast completo di scena al teatro della Pergola
Se i comprimari interpretano diligentemente i propri ruoli, e la regia non regala grosse sorprese, è la scenografia a distinguersi. Alessandro Chiti allestisce un angolo di salone dai toni rossi cupi e ocra e verde pallido, memore delle atmosfere magnificamente decadenti degli interni viscontiani, dominato da una monumentale stufa venuta da Vienna: “personaggio” aggiunto, muto referente dei monologhi (cinici, a tratti lirici) della contessa. Laria dolente che spira da quelle pareti sorde, fasciate da tappezzerie in rovina e mosaici sbriciolati, fa da contraltare allumorismo arioso, lieve di Matilde, sottolineato dallallegretto baroccheggiante degli inserimenti musicali.
Una dialettica del contrasto che dà spessore alla poetica della Valeri, interprete da sempre di una comicità leggera ma nientaffatto consolatoria, con punte di amara riflessione, come nella migliore commedia allitaliana. Perché, come suggerisce il titolo, non tutto è risolto: nello spettacolo come nella vita. Un messaggio lapidario, un testamento spirituale servitoci, ancora una volta, da Franca Valeri. Ma per carità, non parlate allattrice di testamento.
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