Probabilmente se a scrivere The history boys fosse stato un autore italiano non ne saremmo rimasti troppo sorpresi. Non si tratta del livello dellopera, perché i buoni testi da noi non abbondano certo. Non se ne fa neanche una questione di stile, quanto piuttosto di contenuti. La vicenda che questo bellissimo e densissimo dramma di Alan Bennett racconta, è ambientata in una qualsiasi scuola pubblica inglese e contenuta quasi interamente in unaula come tante. Protagonisti sono otto ragazzi impegnati a preparare lesame di ammissione in Storia alluniversità. Cambridge o Oxford sono gli obiettivi più prestigiosi a cui mirano, spinti anche dalle ambizioni meschine del preside, desideroso di far avanzare il proprio istituto nelle graduatorie di eccellenza. Per questo motivo viene assunto un docente ad hoc, Irwin: giovane e intraprendente, egli è il simbolo del nuovo metodo di insegnamento, fondato su un approccio giornalistico alla materia desame. Più che nuove regole, Irwin insegna agli studenti un “trucchetto” per incantare la commissione: cambiare lorientamento del proprio punto di vista rispetto alla storia; abbandonare il classico sistema di analisi dellargomento per infarcire lelaborato di notizie accessorie, anche inutili, purché originali. “Sorprendere” è la parola dordine di Irwin. Fa da contraltare allo strisciante opportunismo di questultimo, la leggerezza appassionata di Hector, emblema di un amore tout court per la cultura. Non a caso ritorna insistentemente la parola «cuore» in riferimento al rapporto tra Hector e il sapere, come quando si cita Pascal: «il cuore conosce ragioni che la ragione non conosce»; oppure quando, in un vivace scontro tra i due insegnanti, Hector sottolinea limpossibilità per gli studenti di usare come «chicche» per la commissione tante cose imparate «par coeur». Da un lato le cose «utili» che insegna Irwin, dallaltro «il sapere e basta». Il Preside e Mrs. Lintott rinforzano le due posizioni rispettivamente.
Una scena dello spettacolo con Hector e i suoi allievi
Tuttavia Bennett non si limita a inscenare lo scontro tra due linee di pensiero, che pure è senzaltro il tema dominante della pièce. Arricchisce il testo di una miriade di riferimenti autobiografici che, partendo dalla preparazione dellautore allo stesso esame, vanno dallattrazione omosessuale di Posner per Dakin alla vocazione religiosa di Scripps. Proprio il tema dellomosessualità attraversa trasversalmente la vicenda, legando tra loro i destini di almeno quattro personaggi centrali. Il motore di questo microplot è Dakin, il giovane fascinoso e gigione da cui sono attratti sia Posner che Hector: il primo è un ragazzo che lotta con un fisico dai tratti adolescenziali e con sentimenti che non riesce ancora a riconoscere né a gestire; il secondo è un uomo quasi sessantenne che, con la scusa di accompagnare gli alunni a casa, li palpeggia quasi uno ad uno mentre sfreccia con la sua moto. La terza vittima di Dakin è Irwin, apparentemente probo nel morale quanto perverso intellettualmente: egli è lunico che riesce a incrinare la straripante eterosessualità del giovane. Non è un caso dunque che proprio Dakin concluda diventando il portavoce del metodo accerchiante e un po vigliacco di Irwin. Come non è un caso che Posner, il personaggio intimamente più sensibile, rappresenti il terreno più fertile per il radicamento delle idee di Hector.
Cè posto anche per una malinconica riflessione della Prof. Lintott sul ruolo marginale avuto dal sesso femminile nella storia umana: questa donna, interpretata da una grande Ida Marinelli, ha una consapevolezza profonda e un po rassegnata del maschilismo che da sempre governa (male) il mondo. Il suo è un ultimo triste tentativo di invitare gli studenti a guardare dentro alle cose, e non da una prospettiva tangenziale.
Una scena dello spettacolo per la regia di De Capitani e Bruni
Leggendo Gli studenti di storia, sembra che tutto sia già nella pagina, finisca aristotelicamente nel testo impeccabile di Bennett. Eppure, proprio per lestrema molteplicità dei livelli di lettura, lo spettacolo messo in scena – per primi in Italia – da Elio De Capitani e Ferdinando Bruni svela anfratti che sfuggono al lettore, avvince e diverte. Esilarante è la scena di piccolo teatro che Hector (Elio De Capitani) dirige nella sua ora di francese, in cui tutto funziona come nellingranaggio di un orologio. Del resto lintero spettacolo è mirabilmente accordato in una partitura per dodici personaggi che non escono mai dallaula, nascondendosi, quando non coinvolti, nella penombra di qualche angolo. Penetrante è la lezione frontale di Hector a Posner (bravissimo Vincenzo Zampa) sulla poesia di Thomas Hardy Il Tamburino Hodge. Apparentemente questa scena a due serve solo a definire il personaggio del ragazzo, a rendercelo più nitido e a spiegarne il legame con Hector. Invece il ritmo rallentato e il senso di raccoglimento che sortisce, allarga la spiegazione del professore allintera platea buia. Linsegnante, appena strigliato dal preside (Gabriele Calindri) per i suoi comportamenti immorali, ci lega a sé e ci fa sentire tutta limportanza del suo ruolo nella scuola. E ognuno percepisce il valore della passione nella trasmissione del sapere. Caustica, ma significativa, la battuta di Rudge (Marco Bonadei) sulla definizione di storia: «La storia è una semplice serie di fatti messi in fila». Passerà anche lui lesame a Oxford, perché suo padre faceva il bidello al Christ Church. Tanto per condire la storia con qualche goccia di nepotismo.
Ida Marinelli (Prof. Lintott) e Marco Bonadei (Rudge)
Dietro il conflitto tra il metodo, e soprattutto le ragioni, dellinsegnamento di Hector e Irwin, Bennett nasconde un ragionamento che ha ripercussioni sul ruolo civile e sociale della scuola. Irwin è il nuovo che avanza, è il simbolo della decadenza a cui è destinata la scuola pubblica (inglese, ma guai a sentirsi risparmiati!), costretta a un patto col diavolo per sopravvivere e per dare ai suoi studenti la possibilità di avanzare negli studi. La morte di Hector che chiude il dramma è il segno di un passaggio di consegne che si compie, ma da cui listruzione in senso lato esce decisamente impoverita. Si tratta di una transizione tra due modi di usare il congiuntivo, il «modo delle possibilità». Per Hector esso illustrava come alluomo sia impossibile capire il mondo nella sua interezza, ed era perciò strumento di continuo arricchimento; Irwin lo intende invece come unarma per disintegrare la realtà e trasformarla in qualcosa di soggettivo, e in fondo molto più povero. Le ultime parole del professore dallaldilà, chiuse in un raggio di luce che bagna una solinga sedia, sono un connubio di nostalgia e speranza: «Passate il testimone. […] Non per me, non per voi, ma per qualcuno, chissà dove, un giorno. […] È questo il gioco che volevo insegnarvi». Un gioco. Fatto col cuore.
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