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Il “piccolo talento” di Wilhelm Kienzl

di Paolo Patrizi
  Der Evangelimann
Data di pubblicazione su web 05/03/2012  

«Non mi considero certo un artista eccezionale: credo però di essere un uomo di onesto e genuino sentire, che ha usato con amore il suo piccolo talento». Nel 1895 questo « piccolo talento» dava vita a uno dei più intensi capolavori che l’opera tedesca postwagneriana abbia mai conosciuto: e la dichiarazione d’intelligenza e umiltà di Wilhelm Kienzl – un altro spiritualissimo musicista figlio dell’Austria contadina trentatré anni dopo la nascita di Bruckner, ma assai meno fortunato di lui – dovrebbe restare a memento, soprattutto se si pensa alla presunzione di quanti poi tentarono, in Germania e fuori, di cancellare con un colpo di spugna quel teatro musicale fin de siècle che aggiornava le istanze del romanticismo, ma senza abbandonarne il tracciato.

Sta di fatto che Der Evangelimann, alla “prima” berlinese del ’95, fu un successo irripetibile per il suo appartato autore; e il ruolo relativamente defilato, all’interno della vita musicale tedesca, poi sostenuto da Kienzl nella propria lunga esistenza (ma ad almeno un paio d’altre opere arrise buona notorietà, e un coro a cappella da lui composto fu, per tutti gli anni Venti, l’inno austriaco) fece sì che il suo capolavoro venisse poi riutilizzato da altri senza troppi scrupoli: Stravinskij sostenne sempre che, per la musica d’organetto di Petrushka, captò il tema da un suonatore ambulante, ma sta di fatto che quel tema, almeno alla lontana, lo incontriamo nel secondo atto di Der Evangelimann. E la bellissima aria del contralto «O schöne Jugendtage» la ritroveremo, debitamente camuffata e banalizzata, nella colonna sonora della Cenerentola disneyana, in quella canzone che – nel doppiaggio italiano – s’intitola I sogni son desideri.

 



(foto di Helge Bauer)


 

 

Anche nei decenni di oblio da parte dei palcoscenici, comunque, Der Evangelimann è rimasto in sella grazie al mondo del disco: almeno due generazioni di grandi tenori – da Anders a Tauber a Patzak, fino a Wunderlich e Gedda – hanno inciso «Selig sind, die Verfolgung leiden», la struggente aria del protagonista accompagnata da un coro di voci bianche, che fu la prima ragione dello straordinario successo dell’opera; ma pure la ricordata aria del contralto ha goduto, nel corso dei decenni, di qualche prestigiosa interpretazione discografica. Mai approdato in un teatro italiano, il lavoro di Kienzl ha poi ricominciato ad avere, dagli anni Settanta, una certa fortuna esecutiva nei paesi di lingua tedesca: e questo spettacolo dello Stadttheater di Klagenfurt, già approdato alla Volksoper di Vienna (è disponibile il dvd), appare come un rispettabilissimo tassello di tale renaissance. La regia di Josef Köpplinger riesce a coniugare modernità e tradizione: la maggiore difficoltà drammaturgica dell’opera – due atti nettamente separati tra loro sotto il profilo temporale e geografico – viene risolta con naturalezza, in un fluire narrativo (anche l’uso di scene girevoli per i cambi d’ambientazione contribuisce a tale fluidità) che scandisce senza cesure il passaggio dalla Bassa Austria del primo atto alla Vienna del secondo, e i trent’anni che li dividono.

Il rischio di assistere a due opere differenti – i momenti bozzettistici, non privi di spunti sorridenti, dell’atto valligiano e la disperazione livida dell’atto viennese – viene aggirato dal regista trovando nel bozzettismo non una divagazione, ma un ingrediente drammatico: in entrambi gli atti Köpplinger – con un gusto cinematografico per il “campo lungo”, ma occhio teatralissimo nell’impaginazione complessiva – mette lo spettatore davanti a tante piccole “altre storie”, che danno l’idea d’un microcosmo chiamato a interagire con la vicenda principale (anche ambientare il mortifero ultimo quadro in una corsia di ospedale, piuttosto che in un appartamento, contribuisce efficacemente a questa lettura). D’altro canto, la regia manipola in senso tragico quelli che, nel primo atto, possono sembrare pleonastici siparietti comici innestati da Kienzl: il sarto Zitterbart, zimbello del villaggio che troverà riscatto sbaragliando tutti i compaesani in una partita a bocce, qui viene sottoposto alle più cocenti umiliazioni senza alcune possibilità di riscossa. È un modo per ricordarci quanta crudeltà possa esserci nei piccoli, e all’apparenza bonari, centri di provincia; ma anche per anticipare quel «beati i perseguitati» che il protagonista, insegnando ai bambini le Beatitudini del Vangelo secondo Matteo, intonerà poi nella pagina più famosa dell’opera.

 


 


(foto di Helge Bauer)


 

 

L’estetica di Kienzl, d’altronde, proprio in questo consisteva: innestare moduli d’indubbia matrice wagneriana – l’uso del Leitmotiv, l’involo melodico come oasi lirica in alternanza al declamato come compenetrazione tra parola e suono – all’interno non d’un épos di eroi, dei e semidei, ma d’un mondo di umili e di vinti. Nonostante l’inequivocabile tocco austriaco lo spettacolo sembra portarci davvero attraverso la «povera gente» dostojevskiana; e attribuire al protagonista, predicatore della parola evangelica dopo anni di carcere patito ingiustamente, improvvise crisi di epilessia si direbbe, da parte del regista, un esplicito rimando al principe Myskin. Se tutto ciò viene espresso molto bene dallo spettacolo, però, è anche merito della duttilità dei protagonisti, capaci di dare progressione e credibilità a ruoli che – nei tre decenni chiamati a separare i due atti – si tramutano tanto da diventare, quasi, dei nuovi personaggi.

Mezzi naturali pregevoli ma emissione perfettibile (e la scioltezza del registro superiore un po’ ne scapita), Johannes Chum non può competere con i grandi tenori che hanno inciso «Selig sind, die Verfolgung leiden»: è però un interprete sensibile e compenetrato, nei moti di ribellione come nella pacificazione catartica del personaggio, laddove il baritono Hans Gröning appare corretto ma piuttosto generico finché deve ricoprire il ruolo d’innamorato respinto e vendicativo, mentre s’impone per tenuta vocale e concentrazione interpretativa nell’ultimo quadro, che lo vede moribondo alla resa dei conti con i propri rimorsi. L’incontro finale tra i due fratelli (Mathias e Johannes, proprio come gli evangelisti), dove si scopre come il secondo sia stato la causa della rovina del primo, è uno dei più devastanti pugni nello stomaco, per forza musicale e drammaturgica, di tutto il teatro d’opera di fine Ottocento: basterebbe questa scena a misurare il talento di Kienzl, ma va dato atto a Chum e Gröning di essere stati qui ottimi mediatori.

 


 


(foto di Helge Bauer)


 

 

Le due protagoniste femminili – una per atto – non spiccano, ma si fanno onore: Martha, classico ruolo di vittima sacrificale destinata a scomparire tragicamente a metà opera, ha trovato nel soprano Alexandra Reinprecht voce poco accattivante (un timbro piuttosto prosciugato) ma discreta sensibilità di fraseggiatrice; Magdalena – comprimaria all’inizio e coprotagonista trent’anni dopo – era Anna Agathonos, dolente e incisiva al tempo stesso, sebbene priva di quel colore contraltile che una pagina come «O schöne Jugendtage» suggerirebbe. Molto valide le parti di fianco a cominciare da Krzysztof Borysiewicz, che plasma l’inflessibile ottusità dell’ordine costituito con note gravi timbrate e voluminose, da vero basso profondo. Tutti ben assecondati da Michael Brandstätter, giovane direttore di casa a Klagenfurt, sensibile al respiro canoro non meno che alla ricchezza strumentale di Kienzl (i due preludi e l’interludio danno l’idea di “narrare” e “cantare” quanto i momenti vocali). Può d’altronde fare affidamento su un complesso – l’Orchestra Sinfonica della Carinzia – di suono compatto, oltre che sempre preciso negli attacchi. E un coro di voci bianche così inappuntabile per amalgama e intonazione in Italia ce lo possiamo dimenticare.

 

Der Evangelimann



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