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Trentasette anni dopo

di Paolo Patrizi
  Orfeo ed Euridice
Data di pubblicazione su web 22/02/2012  

 

La questione si può sintetizzare così: il teatro d’opera ha, nella messa in scena, la stessa disponibilità di qualunque altro tipo di teatro? Oppure il suo estrinsecarsi attraverso la musica e il canto pone, in partenza, una griglia più rigida? In altre parole: riscritture drammaturgiche, manipolazioni di montaggio, tagli non “di alleggerimento”, ma tali da modificare il senso e la prospettiva originari, possono contare sullo stesso diritto di cittadinanza che hanno da decenni nel teatro di prosa? O il mondo del melodramma è – nel bene e nel male – ancora “un’altra cosa”?

 


(Foto di scena di Agathe Poupeney)
 

Per rispondere affermativamente a quest’ultima domanda non è necessario essere uno spettatore tranquillizzato solo da un teatro d’opera sempre uguale a se stesso: basta credere in certe ineludibili esigenze architettoniche della musica, e avere la convinzione che una voce cantata sommamente espressiva abbia in sé una valenza drammaturgica superiore a qualunque (ri)elaborazione registica. Era verosimilmente di parere opposto Pina Bausch, che già nel 1975 aveva dato vita, nel suo regno teatrale di Wuppertal, a un Orfeo ed Euridice indubbiamente ristrutturato, rispetto all’impianto di Gluck e Calzabigi, ma destinato a entrare tra i classici: e che sempreverde resta tuttora, se l’Opéra di Parigi, che con l’inizio del nuovo millennio l’ha più volte inserito nella propria programmazione, lo propone in cartellone anche oggi, a trentasette anni dal debutto e a tre dalla morte della regista-coreografa. Il fatto che lo spettacolo sia in abbonamento non per la stagione operistica, bensì per quella di balletto, è la scelta più scontata: ma potrebbe sottintendere una sfiducia verso la possibilità di accettazione, da parte del popolo melomane, di un Orfeo dove il sipario cala definitivamente sul primo quadro dell’ultimo atto, chiudendo l’opera – un po’ come la Turandot incompiuta voluta da Toscanini – sul compianto del protagonista attorno Euridice nuovamente perduta, in una trenodia cui non seguirà né deus ex machina né lieto fine.

 

È un capovolgimento di prospettiva radicale, ma non destrutturante: Orfeo nacque a Vienna come rappresentazione di circostanza (l’onomastico dell’imperatore) e l’happy end era una necessità imposta dal contesto, non dalla drammaturgia. La destrutturazione, semmai, sta nel trasformare in opéra dansé un lavoro dove il ballo ha importanza fondamentale, ma non quella forza centripeta, rispetto a tutti gli altri elementi, che assume in tale genere musicale: dunque (e sarà un discorso che, per quanto riguarda Gluck, la Bausch avrebbe poi ripreso con Ifigenia in Tauride) ciascuno dei tre personaggi viene replicato da un danzatore, mentre ogni azione, frase, battuta – a cominciare da quelle del coro, che canta nella fossa orchestrale – viene debitamente coreografata. Può sembrare una scelta azzardata, per un’opera che ha forse l’incipit più immobile di tutta la storia del teatro musicale (la cerimonia funebre, Orfeo disteso a terra…), ma l’arte della Bausch dona al quadro una statica plasticità – perfettamente riassunta dall’albero sradicato e dall’immagine della compianta Euridice trasformata in gigantesco totem – dove l’andamento gestuale fluidamente ritualistico si sposa con la scrittura lineare e omofonica di Gluck.

 


(Foto di scena di Agathe Poupeney)
 

Anche la dialettica tra cantanti e danzatori è di grande fascino: benché lo spettacolo si basi sulla revisione operata da Gluck per la ripresa parigina (1774, dodici anni dopo la première viennese), dove Orfeo non era un evirato contraltista ma un tenore, la Bausch opta per una protagonista femminile – lo splendido mezzosoprano Maria Riccarda Wesseling – ammantata di nero e “doppiata” coreuticamente dal giovinetto Nicolas Paul, capace di evocare più un sacrificale San Sebastiano che il pastorello-cantore del mito. In uno slittare dei piani espressivi – dal canto alla danza e viceversa – Orfeo/cantante abbraccerà poi, dopo il tragico sguardo voltato indietro, il corpo senza vita di Euridice/ballerina: è un momento di sublime ambiguità teatrale; e anche un modo per ricordare come, superato Metastasio, le esigenze di simmetria strutturale con Gluck e Calzabigi permangono, ma sono meno prevedibili.

 

Le tre interpreti vocali hanno, innanzi tutto, il merito di non lasciarsi stritolare dal meccanismo dello spettacolo della Bausch: il recitar cantando resta il “fuoco” del dramma, nonostante la perifericità che tante sollecitazioni visive rischiano d’imprimere al fatto canoro, grazie innanzi tutto alla Wesseling, uno di quei mezzosoprani capaci di passare con eguale proprietà dall’opera al Lied, dalla rarefazione del canto cameristico alla proiezione sonora del repertorio sinfonico-vocale. Per un personaggio come Orfeo (che rappresenta l’epitome del canto) e un autore come Gluck (creatore di una drammaturgia canora estranea a qualsivoglia compiacimento edonistico) difficilmente si poteva scegliere meglio. Ma si fanno valere anche Yun Jung Choi, Euridice di drammaticità severa più che di lirismo dolorosamente stupefatto, e Zoe Nicolaidou (per quel poco che resta del personaggio di Amore nella sfoltita rielaborazione della Bausch). A tutte e tre giova intonare l’opera nella versione ritmica tedesca: una traduzione che, nel ’75, fu adottata per il pubblico di Wuppertal, ma esisteva da decenni. Il discofilo sa bene come, cantato da Margarete Klose o Martha Mödl, «Ach! Ich habe sie verloren» possa diventare qualcosa di più appagante – e soprattutto più drammatico – di «Che farò senza Euridice» o «J’ai perdu mon Eurydice»; e anche chi discofilo non è trarrà rivelatorio appagamento ascoltando quest’Orfeo nell’idioma di Goethe.

 


(Foto di scena di Agathe Poupeney)
 

A una disadorna e pregnante severità tedesca risponde il lavoro dell’orchestra: non quella dell’Opéra parigina, ma del magnifico Balthasar-Neumann Ensemble, specializzato in Bach e capace di occasionali incursioni nel repertorio romantico. Ne sortisce un Orfeo – lontano da dimensioni arcadiche e atmosfere incantate – dove la ricerca timbrica si fa indagine drammatica e mai strumento decorativo; e in cui il coro, appartenente al medesimo ensemble, si riappropria di quel ruolo narrativo-evocativo centrale in Gluck e oggi spesso sottovalutato, in anni di Orfei “postbarocchi” dove l’espressione “dramma musicale” suona quasi come un insulto. Manlio Benzi, direttore italiano di casa più all’estero che in patria, s’inserisce nel contesto con duttilità e convinzione: la sua lettura, incisiva senza magniloquenze e consapevole di quanti presagi wagneriani e postwagneriani possa contenere la musica di Gluck (gli interventi di Wagner e Strauss su Ifigenia in Aulide e Ifigenia in Tauride stanno a dimostrarlo), suggella il flusso drammatico dello spettacolo e quasi certamente lascerà compiaciuta, da lassù, anche Pina Bausch.



Orfeo ed Euridice



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