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L’Ubu di Latini profuma di Shakespeare

di Lorenzo Galletti
  Ubu roi
Data di pubblicazione su web 09/02/2012  

 

Nel 2005 Roberto Latini ha il suo primo incontro con Alfred Jarry. In quella occasione mette in scena un Ubu incatenato facendo un uso importante della tecnologia motion capture: ogni movimento dell’attore è ripetuto simultaneamente dal suo doppio (il personaggio) nel mondo virtuale proiettato intorno a lui. Sei anni dopo Latini torna a misurarsi col padre della patafisica e con il suo più degno esponente, invertendo decisamente la rotta. E lo fa con drastica coerenza: per realizzare il suo Ubu roi il regista-attore pesca in fondo al dramma francese, dove alberga l’anima scura del simbolismo.

 


Una scena dello spettacolo
 

La storia è nota: Padre Ubu è un dignitario di Venceslao re di Polonia. Spinto dalla moglie, e grazie all’aiuto del capitano Bordure, uccide il re e ne prende il posto; ma dalla strage della famiglia reale si salva il quattordicenne principe Bugrelao. Re Ubu adotta fin da subito una politica autoritaria fondata sul terrore, la cui vittima più illustre è Bordure. Questo, fuggito alle catene, mette la propria spada al servizio dello zar Alessio e conduce quindi la guerra contro Ubu. Su un secondo fronte è Bugrelao a guidare l’esercito del popolo polacco in rivolta contro il dittatore. Ubu e la moglie riusciranno a sfuggire ai loro inseguitori imbarcandosi verso l’Europa occidentale. Al di là dei fatti narrati, il nodo centrale del racconto di Jarry è la grettezza dei coniugi Ubu. Per loro anche il coraggio e la viltà non sono che strumenti per un disegno più grande: la conquista del potere.

 

La scena realizzata da Luca Baldini è uno spazio bianco e asettico, qualcosa a metà tra il non-luogo e il mondo del sogno. Allo stesso effetto concorrono le luci di Max Mugnai, fredde e siderali, e i suoni di Gianluca Misiti, che creano un tappeto di inquietudine da paesaggio postatomico. La soluzione può apparire essenziale e quasi scontata, ma si rivela decisamente funzionale allo statuto del dramma: ogni scena costruita da Jarry è infatti un dipinto compiuto, autosufficiente pur nel suo concorrere alla costruzione dell’impalcatura generale. Roberto Latini intuisce alla perfezione la potenza di questi quadri e ne sfrutta l’indipendenza per farsi a sua volta autore, innestando brani di testi di altra e diversa provenienza.

 

«Ordunque il Padre Ubu scosse la pera, sicché dagli Inglesi fu poi detto Shakespeare, e di lui, sotto tale nome, restan molte belle tragedie scritte». Parole, queste, che Jarry pone in testa al suo dramma, quasi a mo’ di dedica; parole che Roberto Latini fa proprie al punto da portare lo stesso Shakespeare in scena. La potenza deflagrante dell’Ubu roi nella letteratura e nel teatro di stampo borghese di fine Ottocento elevano Jarry al pari di Shakespeare, sommo poeta della commistione dei generi e di un teatro libero da ogni stereotipo: che colpisce lo spettatore frontalmente, lo trascina dentro il racconto, lo coinvolge.

 


Marco Jackson Vergani, Ciro Masella e Savino Papparella

 

Nell’Ubu roi di Latini, il portatore del messaggio shakespeariano è un burattino fortemente teatrale nel senso appena descritto: è il Pinocchio di Carmelo Bene, di cui veste i panni lo stesso regista. Le sue citazioni da Shakespeare (Giulio Cesare, Macbeth, Amleto, Giulietta e Romeo, La tempesta), recitate con i toni spezzati del Pinocchio beniano, fungono da intermezzi alla rappresentazione. Non hanno nessuna precisa funzione se non quella di creare un parallelo tra i due scrittori: sono ispirazioni dettate al regista dall’andamento della storia principale. Con questo espediente Latini suggerisce al suo pubblico almeno una chiave di lettura per uno spettacolo in verità assai ricco di spunti, su cui chi guarda è costretto a riflettere. Il ruolo di Pinocchio non si esaurisce però a questo: egli vuole essere percepito dal pubblico come lo spettatore esemplare. Lo specchietto che due delle onnipresenti figure mascherate gli pongono davanti, gli ricorda che quello che vede in scena lo riguarda direttamente. E riguarda parimenti tutti noi, che ci crediamo al sicuro, nascosti dal buio della sala, quando al sicuro, invece, non siamo mai: non lo siamo da questo teatro, ma ancora meno dalla Storia che l’Ubu roi racconta.

 

Come si intuisce, il simbolismo di Jarry viene disseminato da Latini lungo tutta la messinscena, che egli contamina con i frutti delle maggiori avanguardie storiche che proprio dal simbolismo si svilupparono. Del dadaismo recupera la pratica della giustapposizione del ready-made: non solo Shakespeare o Bene incollati su Jarry, ma anche l’orientalismo accoppiato ai piccoli numeri dei clown. Al surrealismo giunge per una via ancora più diretta, seguendo il suggerimento della patafisica come «scienza delle soluzioni immaginarie». Questa, invenzione straordinaria dell’autore di Ubu, ha lo scopo di spiegare le leggi che governano l’universo «supplementare» al nostro. Quell’universo da cui sembrano provenire tutti i personaggi di questo Ubu roi, negativi o positivi, nessuno escluso. Si tratta di un luogo governato dalle eccezioni piuttosto che dalle regole, nelle quali Jarry, parodiando non solo i principi della fisica ma quelli della stessa metafisica, riconosce la realtà più autentica delle cose. Volendo, vi si potrebbe quasi leggere un’anticipazione della legge di indeterminazione di Werner Heisenberg.

 


Savino Papparella (Padre Ubu)

 

Ci si diverte e si ride delle ridicole figure inventate da Jarry e ben replicate da tutti gli attori. Il Padre Ubu di Savino Papparella è forse poco vigliacco, ma avido quanto serve a farne una figura sprezzante. La Madre Ubu, incarnata da un divertentissimo Ciro Masella, è trascinante forse più del marito, per la sua cupidigia inesauribile e per quel tocco di grottesco coraggio che la contraddistinguono. Sebastian Barbalan colpisce soprattutto per la sua regina Rosmunda, così ieratica anche al momento di morire di crepacuore. Convincenti Lorenzo Berti (Re Venceslao) e Simone Perinelli (Principe Bugrelao) perfettamente impastati coi loro volti clowneschi che sembrano usciti dalle fantasie di Glenn Brown. Decisamente surrealista il Bordure di Marco Jackson Vergani.

 

Ma nella bianca radura popolata dalle immagini oniriche dei protagonisti, i cui i colori adescano continuamente lo spettatore a partecipare a una festa, sembra sparire il messaggio politico-sociale che trapelava con forza dalle pagine di Jarry. Si ha talvolta l’impressione che la tensione estetica soffochi l’importanza, primaria per l’autore del testo, dello specchio da mettere di fronte allo spettatore. In verità l’appello civile alla salvaguardia delle libertà e il monito a dubitare delle rivoluzioni solo apparenti sono affidati alle figure mascherate che abitano quasi ogni scena. Il loro stanco ma inerme seguire le impronte del potere, il loro silenzio e la loro accondiscendenza sono l’avvertimento più rumoroso: chi non è avversario, è complice.




Ubu roi
cast cast & credits
 



La locandina


 

 

 

 

 

 

 

 


 

 

 

 

 

 

 

 

 

 



Roberto Latini
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 



Savino Papparella e Ciro Masella

 
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