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6 giugno 1944

di Roberto Fedi
  Fratelli al fronte - Band of brothers
Data di pubblicazione su web 18/01/2003  
Il film di guerra è un vero e proprio genere narrativo, come il romanzo storico, la commedia o il giallo. Che ha subito negli ultimi anni notevoli variazioni, evolvendosi verso un realismo non fine a se stesso e verso un culto della memoria ignoto - nella maggioranza dei casi - agli antenati del genere.

Per capire la differenza e cogliere al meglio i punti di evoluzione anche strutturale e narrativa, basterà ricordare (l'argomento è lo stesso) due film: Il giorno più lungo (The Longest Day, 1962) e Salvate il soldato Ryan (Saving Private Ryan, 1998).

Il primo: un filmone discontinuo e frammentato, con addirittura tre registi (Ken Annakin, Andrew Marton, Bernard Wicki), un produttore invadente (Daryl F. Zanuck, che diresse personalmente alcune scene), e un cast all star, da Sean Connery a Henry Fonda, da John Wayne a Robert Mitchum, a interpretare personaggi reali e, spesso, in apparizioni di pochi minuti, come rapidi e ridondanti cameos.

Il risultato fu un film gonfio e noioso, tre ore quasi insopportabili e senza pietas, propagandistiche come i film, molto meno costosi, degli anni Cinquanta.

Il secondo: un grande film di guerra, con un grande regista (Steven Spielberg) e un grande interprete (Tom Hanks). Mai visto un realismo così, non tanto per i particolari spesso crudissimi, quanto per la credibilità della storia, per la visione 'dal basso', per l'attenzione a evitare ogni retorica bellicistica, ogni effettaccio gratuito, ogni campo lungo da affresco storico senza riconoscibilità umana.

Nel mezzo, storicamente, l'esperienza dei film sul Vietnam: che portarono nella filmografia bellica l'idea di una narrazione non onnisciente ma ripresa dal punto di vista dei soldati in campo: con tecniche ricorrenti come quelle della camera in soggettiva, del primo o primissimo piano, dell'importanza del sonoro 'avvolgente', della perdita del centro e dello spaesamento (la vicinanza con il nemico, onnipresente, in un luogo sconosciuto), e del senso quasi fisico della fratellanza dei soldati (si ricorderà come spesso, nelle inquadrature di molti film e da allora in poi sempre, questi siano accanto l'uno all'altro, stretti insieme, dietro un riparo come durante un assalto): unica arma, forse, per non sentirsi perduti. Che è poi forse la principale virtù di un film recente, poco apprezzato e sparito quasi subito ma forse da rivedere proprio per questo: We were soldiers (di Randall Wallace, con Mel Gibson, Usa, 2002).

Dalla costola del Soldato Ryan nasce questa miniserie in 10 episodi, che arriva ora da noi su Rete4: Band of Brothers (Fratelli al fronte: prima puntata giovedì 16 gennaio, ore 21). I produttori, Steven Spielberg e Tom Hanks, hanno ripreso il tema del grande sbarco in Normandia del 6 giugno 1944; questa volta mettendo in scena una compagnia di paracadutisti lanciata, la notte dell'attacco, al di là delle linee nemiche di difesa.

Tenendo presenti i dati storici, ma senza farsi schiacciare dal peso della ricostruzione da manuale (come nel film, del resto), gli autori hanno privilegiato i comportamenti umani, le storie di soldati e non di eroi improvvisamente, dopo due anni di preparazione, messi di fronte al proprio destino.

La scelta narrativa anche qui è quella del gruppo di uomini in una terra ostile, senza punti di riferimento precisi, soli. Non a caso, l'episodio è preceduto da alcune testimonianze di quelli che c'erano, che si lanciarono sulla Francia occupata dai nazisti, che riuscirono a salvarsi e a tornare per raccontarlo.

Come nel film, nella serie (in realtà una collana di narrazioni cinematografiche: magnifica ricostruzione, eccezionale fotografia, accuratezza della struttura narrativa) la scelta stilistica è quella di abbassare il punto di vista: le camera viaggia spesso in soggettiva ed è comunque sempre all'altezza fisica degli interpreti, i campi lunghi sono quasi sempre assenti e comunque sempre osservati dal punto di vista di qualcuno, i singoli sono importanti solo in quanto facenti parte di un gruppo di - appunto - 'fratelli'.

Rispetto a Ryan, i particolari cruenti sono fatti più intuire che realmente rappresentati (l'uccisione di alcuni prigionieri tedeschi, per esempio, avviene fuori campo, al contrario che nel film), ma ciò nulla toglie al senso di disagio, di fatica, di paura, di pena che lo spettatore non può evitare di sentire sulla sua pelle.

Le sequenze, lunghissime, del combattimento in trincea per la conquista di un cannone sono da antologia: lo spettatore è, realmente, in trincea, sente gli spari, è sfiorato dalle pallottole. Che, quando colpiscono qualcuno, quasi si avverte che 'entrano' nel corpo ferito o ucciso, come già accadeva nel film.

Si parla sempre di memoria. Anche in Tv, questo è forse il modo migliore di onorarla: con bravura, dignità, senza sfarzo superfluo ma con grande impegno narrativo. Anche allestire una serie televisiva come questa è un modo, inutile ribadirlo, di fare cultura.
Fratelli al fronte

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Fratelli al fronte

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Damian Lewis



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David Schwimmer



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Damian Lewis

 
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