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Un moderno J’accuse!

di Elisa Uffreduzzi
  The Help
Data di pubblicazione su web 03/02/2012  

Tratto dall’omonimo best seller americano, scritto nel 2009 da Kathryn Stockett, The Help racconta di alcune domestiche di colore che lavorano alle dipendenze dei bianchi nella ridente cittadina di Jackson, nel Mississippi degli anni Sessanta. La tranquilla vita di provincia, dove il razzismo è legge nel vero senso della parola, viene scossa dalla caparbietà di Skeeter (Emma Stone), una giovane e ambiziosa aspirante scrittrice bianca, che insofferente alle discriminazioni razziali quotidianamente compiute sotto ai suoi occhi, decide di porsi alla guida di una crociata antirazzista. Dovrà ridimensionare un po’ i suoi progetti, ma il ragguardevole risultato delle sue fatiche sarà un moderno J’accuse!, scritto a sei mani con l’aiuto di due tenaci e arrabbiate cameriere nere, Aibileen e Minny e la collaborazione di tante loro colleghe.

Valutare un film come questo pone non poche difficoltà, trattandosi di uno di quei casi in cui cuore e ragione confliggono ostinatamente. The Help è fatto per piacere al grande pubblico: politicamente molto corretto, con una schematizzazione ben definita dei personaggi – spesso al limite del caricaturale, un pizzico di ironia, buoni interpreti e tanti buoni sentimenti. Dunque non può non piacere, eppure già a una prima visione non sfuggono le pecche di un’operazione convincente quanto stucchevole e banalizzata. Attenzione non banale, ché gli ingredienti per una buona narrazione ci sono tutti: la grande Storia sullo sfondo, la segregazione razziale nell’America degli anni Sessanta, le timide istanze femministe (nel senso più genuino del termine), il conformismo asfissiante della vita di provincia messo sotto accusa.  A semplificare tutto eccessivamente, riducendo il film a una “favola della buona notte” è il modo in cui questi pur importanti fattori vengono trattati e amalgamati, ricorrendo a una sequela di cliché credibili quanto scontati. Torna in mente un film come Indovina chi viene a cena? (Stanley Kramer, 1967), che con tanto più garbo ed equilibrio sapeva far passare il messaggio antirazzista  di fondo… e pensare che gli mancava la distanza cronologica necessaria per giudicare i fatti! Oggi forse ce n’è anche troppa, o meglio ci sono in mezzo quei cinquant’anni di dibattito che hanno sfumato le originarie e autentiche spinte emancipazioniste nella retorica, tradendole mentre le andavano affermando.




Del tutto posticcia poi la storia d’amore tra Skeeter e Stuart: se era già presente nel romanzo, nella regia di Tate Taylor non lega con il resto della narrazione e  le scene che la raccontano rimangono sempre avulse dalle sequenze di cui fanno parte. Anche l’umorismo che qua e là fa capolino durante il film è innocente, facile e  mai tagliente. Del resto è forse proprio alla sceneggiatura dello stesso Taylor (per lo meno stando alla versione italiana) che è imputabile la banalizzazione che penalizza il film.

Nulla da eccepire sul piano più strettamente tecnico, anche qui è tutto molto corretto. Se il montaggio (Hughes Winborne) è in gran parte fedele alle norme del cinema classico, anche la fotografia (Stephen Goldblatt) rievoca il Technicolor di tanta filmografia uscita dagli Studios negli anni Cinquanta e Sessanta. Apprezzabili almeno un paio di inquadrature, come le carrellate aeree sulle piantagioni che di quel cinema sono altrettanto debitrici e l’espediente visivo mediante il quale ci viene presentata Jessica Chastain, incantevole nei panni della svampita e dolce Celia Foorte, un personaggio che ricorda sensibilmente il mito di Marylin Monroe. La Chastain entra in scena in punta di piedi, nel vero senso della parola: un dettaglio dei piedi inerpicati su tacchi vertiginosi ce la mostra per la prima volta; poi la macchina da presa sale lentamente fino a svelare l’intera figura. Una “maniera” di filmare che è un tòpos divistico inconfondibile.

Se già qui il découpage è al limite del canone classico, presentando un breve movimento di macchina che si fa notare, esso esce più decisamente dal solco del montaggio invisibile, con il flashback d’apertura del film. Alla prima inquadratura della mano di Skeeter che scrive il titolo The Help sulle righe di un quaderno, segue il campo-controcampo Skeeter/Aibileen, che termina con la mezza figura della domestica di colore, assorta nei suoi ricordi, lo sguardo perso nel vuoto oltre la finestra. Qui inizia il flashback che racconta le vicissitudini attraverso le quali è cominciata l’impresa di Skeeter e le sue “compagne di battaglia”. A tre quarti del film il flashback si chiude con la ripetizione esatta di alcune delle inquadrature di apertura. Sentiamo quindi la stessa domanda della giovane scrittrice in sottofondo, mentre rivediamo la mezza figura di Aibileen che si perde nei ricordi. Da qui la cronologia riprende a scorrere in modo lineare. Il fatto di concludere “l’analessi” molto prima della fine del film, crea una sfasatura temporale vistosa e quindi in contraddizione con le norme di linearità narrativa e occultamento della macchina da presa del cinema classico. Per la verità l’espediente in luogo di arricchire il testo filmico, riesce solo a creare un elemento di disturbo, in un prodotto la cui intenzionalità non risiede certo nell’originalità visiva e quando vi aspira, fallisce. Insomma una variazione sul tema flashback della quale si poteva volentieri fare a meno.




Tra gli interpreti del film, oltre a Viola Davis (Aibileen) e Octavia Spencer (Minny Jackson), che per la costruzione delle parti e la mimica debitrice di una consolidata tradizione attorica “black” sono paragonabili a consumate caratteriste (e dunque ottime professioniste), lascia il segno Sissy Spacek, interprete di Missus Walters, l’anziana madre apparentemente rimbambita di Miss Hilly Holbrook. Una parte piccola ma non facile, perché anche questa “da caratterista” e quindi a rischio di finire “sopra le righe”.

La colonna sonora si muove su due piani paralleli, entrambi molto gradevoli. Da un lato vi sono le musiche d’accompagnamento di Thomas Newman, ricche di temi descrittivi del carattere di vari personaggi (ve ne sono per Skeeter, Aibileen, Constantine, Miss Hilly, ecc.); dall’altro le canzoni a corredo del film, che oltre ai brani originali dell’epoca in cui è ambientata la storia (come Let's Twist Again, cantata da Chubby Checker ), comprendono anche la canzone The Living Proof  di Mary J. Blige, appositamente scritta per il film.

In fin dei conti The Help è un romanzo di formazione tradotto in rassicurante film per famiglie, che per trama, stile visivo e sceneggiatura, ricorda molto il cinema hollywoodiano degli anni Sessanta e forse proprio per questo sarebbe stato più adatto a quel pubblico, dallo sguardo cinematograficamente più naif, che non a quello di oggi, per il quale risulta un po’ troppo semplicistico, alla luce degli ultimi cinquant’anni e oltre di cultura visiva. 



The Help
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