Non è forse un caso che sia spettato a una città come Trieste, scissa tra divisioni culturali tanto prolifiche quanto dolorose, dare i natali a un compositore che portò nel teatro dopera la scissione dellIo, e visse sulla propria pelle le dissociazioni della psiche. Nato in quel crocevia di cultura austriaca, slava e romanza che è la città di Italo Svevo, una trentina danni dopo che lautore della Coscienza di Zeno vi aveva visto luce (1892, Trieste non era ancora in territorio italiano), Marij Kogoj morì pazzo, al pari di musicisti ugualmente infelici ma più popolari come Donizetti, Schumann, Smetana: né i contemporanei né i posteri gli hanno reso giustizia, ma non dovrebbe passare inosservato il giudizio che, un anno prima della morte (1956), ne diede un musicologo – oltre che musicista militante – dello spessore intellettuale di Pavle Merkù («Kogoj è il più forte e importante compositore della prima metà del ventesimo secolo»), così come è interessante ricordare che Claudio Abbado meditò, salvo poi lasciarsi assorbire da altri progetti, di dirigere Maschere nere, unica opera teatrale di Kogoj.
(Fotografie di Tiberiu Marta)
Composta tra il 24 e il 27 (dunque, sia un caso o meno, a ridosso della pubblicazione di LIo e lEs da parte di Freud), andata in scena a Lubiana nel 29 e mai più rappresentata vivente lautore, Črne Maske ha il fascino delle opere “aperte” e “maledette” – anche i problemi testuali legati a una partitura che restò autografa senza essere stampata contribuiscono al quadro – come, daltronde, lo è il dramma di Leonid Andreev da cui è tratta. Kogoj mette direttamente in musica, con minimi tagli e traducendolo in lingua slovena, il testo russo, senza passare attraverso unintermediazione librettistica: e tanta fiducia in una pièce gravida di simbolismo esistenziale assai poco operistico può spiegarsi solo con una totale empatia del compositore verso il testo. Ambientata in un Medioevo metastorico dove il riferimento alle crociate è lunico addentellato temporale (latmosfera castellana e giullaresca fa semmai pensare a certi drammi rinascimentali in auge nel teatro dopera del primo Novecento), la vicenda narra lapologo di chi, per voler fare luce in se stesso, libera la parte più buia del proprio Io. Sono queste le maschere nere del titolo: animate particelle di tenebra sgorgate dalle fiaccole che illuminano il castello, attratte dal fuoco come le farfalle ma – al contrario di esse – non bruciate dalla loro fonte di attrazione, bensì capaci di oscurare ogni fiamma. Intanto la dissociazione del protagonista porta a generare una sorta di sosia dostojevskiano che, in base alleterno tema delluomo che uccide se stesso, cadrà sotto la spada del proprio “doppio”, mentre il sipario cala su un inarrestabile fuoco purificatore, insieme distruttivo e catartico.
(Fotografie di Tiberiu Marta)
La biografia di Kogoj cinsegna che la sua malattia mentale partì dallidentificazione con il proprio fratellino, morto in tenerissima età: e ciò spiega bene la sua fascinazione per questo testo di Andreev – precedente lopera di una ventina danni, e nel frattempo un po invecchiato nel suo allegorico espressionismo – allucinato e allucinatorio, dai continui sbandamenti cognitivi. Le sparute riprese di Maschere nere nei decenni successivi alla première (tre sole volte, tra la fine degli anni Cinquanta e linizio degli anni Novanta), tutte circoscritte al territorio sloveno, hanno poi dovuto fare i conti con una temperie ideologico-musicale che si era polemicamente affrancata dalle istanze del primo Novecento: oggi i tempi sono maturi per apprezzare di nuovo i frutti di quel post-romanticismo ora liberty e impressionista, ora espressionista e decadente in cui sono confluiti almeno due generazioni di compositori, e dove Kogoj si colloca come autore tutto da riscoprire. Poter finalmente disporre di unedizione critica della partitura (lha curata Uroš Lajovic, che ha diretto questa nuova ripresa a Maribor) è un ulteriore passo avanti dal punto di vista della consapevolezza musicologica.
Approfittando dellattenzione che va convogliandosi attorno a Maribor come Capitale europea della cultura per il 2012, il Teatro dellOpera della seconda città della Slovenia ha fatto le cose in grande, approntando una sontuosa coproduzione con Lubiana (dove approderà tra poco, mentre ulteriori repliche sono previste al Teatro Stabile Sloveno di Trieste) e coinvolgendo alcuni dei maggiori artisti nazionali: dal cineasta Janez Burger, qui alla sua prima regia operistica, al costumista Alan Hranitelj, passando al collettivo Numen responsabile della scenografia. Ed è proprio quella visiva la parte più affascinante dello spettacolo: alle prese con una vicenda da rappresentare attraverso un minuzioso descrittivismo o una stilizzata evocatività – tertium non datur – Burger non abiura al proprio occhio cinematografico e, dunque, imbocca la prima strada, ma senza alcuna tentazione calligrafica. Una visionarietà livida, mai effettistica né ridondante (un pericolo che con Andreev sarebbe dietro langolo), è la sua cifra più immediata, con alcuni momenti davvero inquietanti come lapparizione dellorchestrina mascherata, sorta di “maschera nera sonora” tra le altre Črne Maske che popolano il palcoscenico. Anche se a restare negli occhi sono soprattutto i bellissimi costumi di Hranitelj, moderni per il protagonista e il suo “doppio”, funerei per le maschere eponime, fantasiosissimi e abbacinanti per le “maschere rosse”: fantasmi dellinconscio anchesse, destabilizzanti ma non ancora distruttive, destinate a soccombere alla pulsione mortifera delle loro sorelle nere.
(Fotografie di Tiberiu Marta)
Il lavoro di Lajovic nella ricostruzione della partitura, certo prezioso, non porta invece – una volta impugnata la bacchetta – allo spessore drammatico che sarebbe lecito aspettarsi: lorchestra suona più compatta che energica, più precisa che pulsante. Ma qui forse entra in gioco, per lascoltatore vergine nei confronti di questopera, un malinteso stilistico: il soggetto, gli anni della composizione, lapprendistato di Kogoj con Schreker (un rapporto tanto fertile e affettuoso quanto fu ricco di frizioni quello con Schönberg, altro suo maestro) indurrebbero ad attendere sonorità violentemente espressioniste, ma Maschere nere è lavoro tanto pletorico nelle dimensioni quanto, spesso, rarefatto nellintelaiatura orchestrale. La vena intimistica di Kogoj (nel suo catalogo primeggiano le composizioni cameristiche) porta, insomma, a unulteriore dissociazione: ridondanza drammaturgica versus introversione strumentale; e alla fine ciò che più affascina, in questa musica, è la scrittura vocale, dominata da Kogoj non con il mestiere delloperista – che gli mancava – ma grazie alla lunga militanza nelle pagine liederistiche e in quelle per coro a cappella.
Tra un soprano lirico-spinto dalle suggestioni straussiane, un basso profondo grottesco che guarda al Varlaam di Musorgskij e un tenore la cui tessitura acutissima non sincanala in palpiti amorosi, ma veleggia nei cieli della metafisica e dellassurdo, a dominare è però il baritono, quasi ininterrottamente in scena per circa tre ore di musica: una vocalità indefinibile nel suo polistilismo, speculare alla dissociazione psichica del personaggio, che trascolora dallarioso al declamato, dallo Sprechgesang al sussurro. Se Fischer-Dieskau si fosse accostato a Maschere nere ne sarebbe stato un interprete ideale (e lopera avrebbe acquistato maggiore notorietà), ma va dato atto a Jože Vidic di aver circumnavigato tutti i desiderata del personaggio con somma perizia e il limite di essere “solo” un valentissimo professionista, senza particolari affondi carismatici. Gli fa da controparte, peraltro assai meno presente in palcoscenico, il proprio “doppio”, anchesso baritono e affidato alla vocalità più monodimensionale – ma appagante nellemissione solidissima – di Jaki Jurgec: e lo scontro, nel secondo quadro, tra le due voci baritonali chiamate a incarnare lo stesso personaggio, che poteva concretarsi in una certa monotonia, rivela in Kogoj un grande drammaturgo vocale.
(Fotografie di Tiberiu Marta)
Martina Zadro ha lintensità, oltre alla bellezza, che la sua parte richiede; Saša Čano è un basso tenebroso e un commediante strepitoso; le stratosferiche altezze canore del menestrello Romualdo vengono scalate con scioltezza da Martin Sušnik, mentre laltro tenore, Andrej Debevec, ha mezzi più modesti, ma piegati ad arte nel ruolo del giullare deus ex machina. Il numero enorme delle parti di fianco rende ardua una disamina analitica, e trincerarsi dietro il classico «bene gli altri» è sempre generico: meglio citare, per tutti, lallampanato intendente del castello cui presta voce e figura il giovane baritono Sebastijan Čelofiga, esemplare per proiezione, senso ritmico, duttilità vocale (il ruolo è un continuo zigzagare dal canto alla recitazione intonata) e capace di dare respiro a un personaggio costruito tutto per brevi e intervallati frammenti.
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