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La commedia delle donne

di Elisa Uffreduzzi
  E ora dove andiamo?
Data di pubblicazione su web 27/01/2012  

Nadine Labaki, reduce dal successo di Caramel (2007), torna a incantarci nei panni di Amale, novella Lisistrata. Alle soglie del ventunesimo secolo, nel Libano appena uscito dall’annoso conflitto con Israele, in un villaggio paradossale in cui cristiani e musulmani convivono pacificamente da generazioni, l’eco delle tensioni religiose nazionali tutt’altro che estinte inasprisce la convivenza civile. Saranno le donne, esasperate da una vita perennemente in lutto per gli uomini persi in guerra, a escogitare soluzioni sempre nuove e fantasiose per salvaguardare la concordia nel villaggio. L’autrice realizza un film bello e originale, smaccatamente pacifista, sui toni della commedia e del musical, abbondando in ironia senza per questo tradire le sue serie motivazioni di fondo.

In un paesaggio brullo e «senza fiori», come recita la filastrocca iniziale, un gruppo di donne in nero viene avanti verso la macchina da presa a passo cadenzato, seguendo il ritmo della musica in sottofondo. Moderne Menadi, avanzano battendosi il petto, in mano chi la foto del marito o del figlio defunto, chi un rosario; rilasciano improvvisamente il collo e ondeggiano il bacino definendo una coreografia minimalista, sulla falsariga del Tanztheater di  Pina Bausch. Già in questa specie di prologo danzato è scritta in nuce la storia che sta per essere narrata. Scopriamo così le ragioni che da tempo immemorabile dividono un popolo persino nella morte: all’arrivo al cimitero il corteo femminile si divide in due gruppi, corrispondenti ciascuno a una parte di esso, l’una cristiana, l’altra musulmana. Come le protagoniste della Lisistrata artistofanesca, anche le donne di Nadine Labaki si accordano e traggono in inganno gli uomini in nome del bene comune e come nella commedia greca del quinto secolo, anche qui la seduzione è il deterrente chiamato in causa per distoglierli da propositi bellicosi; salvo poi ricorrere in extremis anche all’aiuto degli stupefacenti, o meglio di una “cucina stupefacente”, perché gli uomini si sa, vanno presi per la gola.




Pur trattandosi di una storia corale, in cui in generale è alle donne che spetta un ruolo di primo piano, meritano senz’altro una menzione particolare la stessa Nadine Labaki nei panni di Amale e Claude Baz Mussawbaa nel ruolo di Takla. Due figure forti e combattive che affascinano nella convincente interpretazione delle due attrici.

In ossequio alle leggi della Poetica aristotelica, la morte violenta, così come la guerra, non vengono mai mostrate in scena, ma solo suggerite. L’improvviso decesso di uno dei protagonisti (non a caso deposto nel pozzo avvolto in un sudario bianco e come Cristo morto per la pace degli uomini) avviene fuori campo; analogamente, del conflitto interreligioso che sta sconquassando il Paese, sentiamo solo parlare dalla radio, dai giornali e dalla televisione, man mano boicottati dalle donne.

La danza è presente a più riprese all’interno del film. Se la scena dei balletti arabeggianti eseguiti dalle ballerine ucraine assoldate fa parte della narrazione a pieno titolo, è possibile distinguere tra vere e proprie sequenze oniriche (come nel caso del corteggiamento immaginato e cantato/danzato tra Amale e l’imbianchino del villaggio) e scene che, come quelle della processione funebre iniziale e della cucina a base di hashish, pur esulando dalla narrazione, non appartengono alla sfera del sogno e scelgono quindi le modalità espressive più convenzionali del musical. La danza, il canto e le filastrocche recitate in sottofondo fanno del film una sorta di moderno vaudeville, nel quale la musica di Khaled Mouzannar costituisce una presenza imprescindibile ed eloquente anche quando cessa. È questo il caso delle scene di guerriglia nel villaggio, in cui l’improvviso vuoto sonoro si fa sentire per contrasto.




La fotografia scarna di Christophe Offenstein dà conto della coloristica giallo ocra del paesaggio mediorientale, distinguendosi nelle scene notturne per il netto cambiamento di luce: al buio fitto al limite del bianco e nero delle scene lunari, fa da contraltare la luce accecante di quelle diurne.

Nadine Labaki dimostra di aver già definito un proprio stile autoriale, come si evince da alcune scelte registiche. Nella splendida scena in cui alcune donne si recano per la prima volta in città per reclutare le ballerine slave, l’autrice dà conto del paesaggio che vanno scoprendo, attraverso i loro volti: invece di inquadrare l’ambiente circostante, la macchina da presa si sofferma esclusivamente sui visi affascinati delle due donne. Una scelta, prediligere il reaction shot, che la regista replica anche nel campo-controcampo, come nella scena in cui Amale e un’amica portano una ballerina loro complice a casa dell’imbianchino e Labaki inquadra il soggetto intento ad ascoltare invece di quello che parla, dimostrando una peculiare attenzione all’espressività e alla mimica. Le vedute del villaggio deserto in apertura, accompagnate da una filastrocca recitata in sottofondo e seguite dalle inquadrature di un altro corteo funebre, tornano alla fine, definendo così una perfetta struttura circolare. In quelle immagini disabitate la mancata presenza umana fa sentire quella della macchina da presa che interroga lo spettatore, invitandolo a riflettere sul reale.

Ancora una volta Labaki sceglie quello femminile come sguardo privilegiato. Le donne, sia libanesi che ucraine, unite in una vicenda esemplare di solidarietà femminile, appaiono le sole in grado di guardare agli eventi con distacco e ragionevolezza, proprio nel momento in cui si afferma il trionfo della Natura sulla Ragione. Gli uomini del villaggio perdono di vista la guerriglia, distratti dalle avvenenti danzatrici che risvegliano i loro appetiti sessuali, proprio come avveniva nella commedia aristofanesca; spetta allora alle donne prendere in mano le redini della situazione, a fronte dell’inettitudine maschile a realizzare una comunità civile stabile e pacifica. Segno, questo, delle comuni radici della cultura mediterranea, che a partire dall’Antica Grecia e prima ancora dal culto della Grande Madre, passando attraverso quello mariano fino ad arrivare alle libanesi di oggi, individua nel femminile un principio d’ordine imprescindibile.

Portato l’altro, il nemico, nelle pareti domestiche come contrappasso educativo per gli uomini del villaggio, il film termina con una domanda, quella del titolo, la cui risposta rimane sospesa sui volti attoniti della processione funeraria. Una metafora del fatto che evidentemente, neanche il femminile è in grado di trovare una soluzione definitiva al bisogno di prevaricazione insito nell’uomo; quasi che dividersi in una scelta di parte fosse per il genere maschile un atto doveroso, l’unico in grado di conferirgli un’identità forte e univoca. Allora non rimane che il rifugio nel sogno, sembra suggerire Nadine Labaki, che si tratti di un numero da musical, di un film del tutto utopistico o dell’improbabile fuga del prete e dell’Imàm, che se ne vanno insieme sull’autobus delle ballerine ucraine, nemici eppure complici, come Peppone e Don Camillo, figli di due ideologie diverse ma per natura non così dissimili. 



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