Nadine Labaki, reduce dal successo di Caramel (2007), torna a incantarci nei panni di Amale, novella
Lisistrata. Alle soglie del ventunesimo secolo, nel Libano appena uscito
dallannoso conflitto con Israele, in un villaggio paradossale in cui cristiani
e musulmani convivono pacificamente da generazioni, leco delle tensioni religiose
nazionali tuttaltro che estinte inasprisce la convivenza civile. Saranno le
donne, esasperate da una vita perennemente in lutto per gli uomini persi in
guerra, a escogitare soluzioni sempre nuove e fantasiose per salvaguardare la
concordia nel villaggio. Lautrice realizza un film bello e originale,
smaccatamente pacifista, sui toni della commedia e del musical, abbondando in
ironia senza per questo tradire le sue serie motivazioni di fondo.
In un paesaggio brullo e «senza
fiori», come recita la filastrocca iniziale, un gruppo di donne in nero viene
avanti verso la macchina da presa a passo cadenzato, seguendo il ritmo della
musica in sottofondo. Moderne Menadi, avanzano battendosi il petto, in mano chi
la foto del marito o del figlio defunto, chi un rosario; rilasciano
improvvisamente il collo e ondeggiano il bacino definendo una coreografia
minimalista, sulla falsariga del Tanztheater di Pina Bausch. Già in questa specie di prologo
danzato è scritta in nuce la storia
che sta per essere narrata. Scopriamo così le ragioni che da tempo immemorabile
dividono un popolo persino nella morte: allarrivo al cimitero il corteo
femminile si divide in due gruppi, corrispondenti ciascuno a una parte di esso,
luna cristiana, laltra musulmana. Come le protagoniste della Lisistrata artistofanesca, anche le
donne di Nadine Labaki si accordano e traggono in inganno gli uomini in nome
del bene comune e come nella commedia greca del quinto secolo, anche qui la
seduzione è il deterrente chiamato in causa per distoglierli da propositi
bellicosi; salvo poi ricorrere in
extremis anche allaiuto degli stupefacenti, o meglio di una “cucina
stupefacente”, perché gli uomini si sa, vanno presi per la gola.
Pur trattandosi di una storia
corale, in cui in generale è alle donne che spetta un ruolo di primo piano,
meritano senzaltro una menzione particolare la stessa Nadine Labaki nei panni
di Amale e Claude Baz Mussawbaa nel
ruolo di Takla. Due figure forti e combattive che affascinano nella convincente
interpretazione delle due attrici.
In ossequio alle leggi della Poetica aristotelica, la morte violenta,
così come la guerra, non vengono mai mostrate in scena, ma solo suggerite. Limprovviso
decesso di uno dei protagonisti (non a caso deposto nel pozzo avvolto in un
sudario bianco e come Cristo morto per la pace degli uomini) avviene fuori
campo; analogamente, del conflitto interreligioso che sta sconquassando il
Paese, sentiamo solo parlare dalla radio, dai giornali e dalla televisione, man
mano boicottati dalle donne.
La danza è presente a più riprese
allinterno del film. Se la scena dei balletti arabeggianti eseguiti dalle
ballerine ucraine assoldate fa parte della narrazione a pieno titolo, è
possibile distinguere tra vere e proprie sequenze oniriche (come nel caso del
corteggiamento immaginato e cantato/danzato tra Amale e limbianchino del
villaggio) e scene che, come quelle della processione funebre iniziale e della
cucina a base di hashish, pur esulando dalla narrazione, non appartengono alla
sfera del sogno e scelgono quindi le modalità espressive più convenzionali del
musical. La danza, il canto e le filastrocche recitate in sottofondo fanno del
film una sorta di moderno vaudeville,
nel quale la musica di Khaled Mouzannar
costituisce una presenza imprescindibile ed eloquente anche quando cessa. È questo
il caso delle scene di guerriglia nel villaggio, in cui limprovviso vuoto
sonoro si fa sentire per contrasto.
La fotografia scarna di Christophe Offenstein dà conto della
coloristica giallo ocra del paesaggio mediorientale, distinguendosi nelle scene
notturne per il netto cambiamento di luce: al buio fitto al limite del bianco e
nero delle scene lunari, fa da contraltare la luce accecante di quelle diurne.
Nadine Labaki dimostra di aver
già definito un proprio stile autoriale, come si evince da alcune scelte
registiche. Nella splendida scena in cui alcune donne si recano per la prima
volta in città per reclutare le ballerine slave, lautrice dà conto del
paesaggio che vanno scoprendo, attraverso i loro volti: invece di inquadrare
lambiente circostante, la macchina da presa si sofferma esclusivamente sui
visi affascinati delle due donne. Una scelta, prediligere il reaction shot, che la regista replica
anche nel campo-controcampo, come nella scena in cui Amale e unamica portano
una ballerina loro complice a casa dellimbianchino e Labaki inquadra il
soggetto intento ad ascoltare invece di quello che parla, dimostrando una peculiare
attenzione allespressività e alla mimica. Le vedute del villaggio deserto in
apertura, accompagnate da una filastrocca recitata in sottofondo e seguite
dalle inquadrature di un altro corteo funebre, tornano alla fine, definendo così
una perfetta struttura circolare. In quelle immagini disabitate la mancata
presenza umana fa sentire quella della macchina da presa che interroga lo
spettatore, invitandolo a riflettere sul reale.
Ancora una volta Labaki sceglie
quello femminile come sguardo privilegiato. Le donne, sia libanesi che ucraine,
unite in una vicenda esemplare di solidarietà femminile, appaiono le sole in
grado di guardare agli eventi con distacco e ragionevolezza, proprio nel
momento in cui si afferma il trionfo della Natura sulla Ragione. Gli uomini del
villaggio perdono di vista la guerriglia, distratti dalle avvenenti danzatrici
che risvegliano i loro appetiti sessuali, proprio come avveniva nella commedia
aristofanesca; spetta allora alle donne prendere in mano le redini della
situazione, a fronte dellinettitudine maschile a realizzare una comunità
civile stabile e pacifica. Segno, questo, delle comuni radici della cultura
mediterranea, che a partire dallAntica Grecia e prima ancora dal culto della Grande
Madre, passando attraverso quello mariano fino ad arrivare alle libanesi di
oggi, individua nel femminile un principio dordine imprescindibile.
Portato laltro, il nemico, nelle
pareti domestiche come contrappasso educativo per gli uomini del villaggio, il
film termina con una domanda, quella del titolo, la cui risposta rimane sospesa
sui volti attoniti della processione funeraria. Una metafora del fatto che
evidentemente, neanche il femminile è in grado di trovare una soluzione
definitiva al bisogno di prevaricazione insito nelluomo; quasi che dividersi
in una scelta di parte fosse per il genere maschile un atto doveroso, lunico
in grado di conferirgli unidentità forte e univoca. Allora non rimane che il
rifugio nel sogno, sembra suggerire Nadine Labaki, che si tratti di un numero
da musical, di un film del tutto utopistico o dellimprobabile fuga del prete e
dellImàm, che se ne vanno insieme sullautobus delle ballerine ucraine, nemici
eppure complici, come Peppone e Don Camillo, figli di due ideologie diverse ma per
natura non così dissimili.
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