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L’industriale grigio piombo

di Elisa Uffreduzzi
  L'industriale
Data di pubblicazione su web 22/01/2012  

Una sola inquadratura, la prima, basta a contestualizzare geograficamente e psicologicamente la storia che sta per essere mostrata: è “un’istantanea” del Po che attraversa Torino avvolta nella nebbia.

Nicola (Pierfrancesco Favino) è l’industriale del titolo: gestisce la piccola fabbrica ereditata dal padre, inarrivabile modello di vita e professionalità. L’azienda è in crisi, il rapporto con l’amata moglie Laura (Carolina Crescentini), pure. Il film “nicchia” su questa situazione di impasse per tre quarti del suo svolgimento, salvo poi precipitare vorticosamente verso un finale preannunciato. Lo si potrebbe definire una non-storia, in stile antonioniano (si pensi a L’avventura, 1960 e Blow-Up, 1966), in cui anche se gli ingredienti per un giallo o un crime movie ci sono tutti (il sospetto, l’omicidio, persino dei veri e propri pedinamenti investigativi), il finale rimane irrisolto, sospeso sullo sguardo in macchina di un Nicola scosso dal senso di colpa, eppure determinato. Del resto i possibili riferimenti al cinema del maestro ferrarese non si limitano alle scelte inerenti al racconto.




La fotografia plumbea di Arnaldo Catinari è senz’altro l’elemento che caratterizza maggiormente  il film, avvolgendo luoghi e personaggi in una luce livida e poco contrastata, che confonde i primi con lo sfondo. La scala cromatica del film si attesta infatti sui toni freddi desaturati, al limite del bianco e nero: è il caso della sequenza dell’omicidio, nel frammentario flashback di Nicola. Montaldo non è nuovo a questi giochi di colore (vedi Sacco e Vanzetti, 1971) ma qui l’espediente, benché soltanto suggerito, assume una duplice valenza, da un lato rievocando i codici espressivi del noir (nell’effetto silhouette delle sagome di Laura e il suo presunto amante in macchina ad esempio), dall’altro raffreddando ulteriormente i toni cromatici, quasi a tradurre in immagini il gelo della morte.

D’altro canto questa coloristica al confine con la monocromia ricorda il già citato Antonioni di Blow-Up, nelle sequenze al parco in cui Thomas vedeva e non vedeva l’omicidio confondersi con la vegetazione. Anche qui non c’è certezza della visione e Nicola crede di aver visto un tradimento del quale dubiterà anche lo spettatore a un certo punto, diviso tra le ragioni di una Laura apparentemente sincera e quello che crede di spiare Nicola. Del resto la scena irrelata dei mimi che Laura incontra a un semaforo sembrerebbe una citazione esplicita di Blow-Up. Se in quel film l’erba grigio-verde del parco contrastava nettamente con i colori pop delle fotografie di moda e della Swinging London, qui è il rosso ad accendersi per contrasto sul grigiore di fondo, imitando un effetto (il lampo di colore sul bianco e nero di base) già sperimentato da registi come Spielberg e Edgar Reitz. Nel lungo camera car sui manifesti di alcuni operai accampati fuori da una fabbrica (si intuisce il riferimento alle recenti vicende dello stabilimento industriale Fiat Mirafiori), il rosso degli striscioni che vediamo nella soggettiva di Nicola dal finestrino della macchina, ci colpisce come ha colpito lui e allo stesso tempo richiama la nostra attenzione sull’attuale condizione socio-politica italiana. Un’allusione evidente al contesto nazionale è anche presente nella scena dei cortei operai, ricostruiti per addizione di segmenti, nel montaggio rapido di inquadrature della folla e pezzi di manifesti. Rosso in contrasto con lo sfondo è anche il giacchetto che Laura regala al garagista Gabriel (Eduard Gabia) il quale – di nuovo in un camera car – ci viene mostrato traguardando dal finestrino della macchina che lo pedina. Quasi che quello fosse il colore della ragione dei più vulnerabili: «hai fatto la guerra al mondo, eppure sei stato capace di vendicarti sul più debole» dirà Laura a Nicola.

Ancora Antonioni è il termine di paragone per la cromia ferrigna della sequenza iniziale di Deserto rosso (1964), che non a caso descriveva anch’esso un paesaggio industriale come la Torino presentata da Montaldo. In entrambi i casi, inoltre, una coppia in crisi è protagonista della narrazione: l’autore ci propone un nuovo dramma dell’incomunicabilità, in cui i soggetti interessati evitano il confronto verbale franco e diretto.

Nella visione che ne dà Montaldo, spesso i personaggi appaiono “persi” nello spazio che li circonda, che si tratti di grandi stanze semi-vuote – l’inquadratura dall’alto di Nicola, quasi un plongée, che cena da solo in sala da pranzo, dà il senso di un opprimente isolamento – o di “non-luoghi” – come il guado del fiume presso il quale Nicola dialoga con il suo commercialista, o il lungo e asettico corridoio della banca che percorre guidato da un’impiegata e ripreso dal basso di un’angosciante carrellata, prima a seguire e poi a precedere.




Il film ha un andamento altalenante, caratterizzato da frequenti ellissi, spesso seguite da un flashback atto a colmare le lacune che così si sono formate. Questa tendenza sinusoidale si ravvisa anche nella colonna audio, segnata da ricorrenti raccordi sonori in cui il dialogo a seguire inizia sulle immagini della scena precedente. Le musiche di Andrea Morricone, pur adeguate, mancano dell’efficacia tematica cui ci aveva abituato il più celebre padre, già collaboratore del regista.

Nel ruolo del protagonista si distingue Pierfrancesco Favino, capace di interpretare efficacemente e senza sbavature una scena difficile come quella della discussione con l’amico paterno. L’uomo prima lo rimprovera, poi gli fa una carezza e lui si scioglie in lacrime: un passaggio delicato, ad alto rischio di patetismo. Nulla da dire sulla Crescentini: la sua Laura passa inosservata.

Un po’ sopra le righe risulta invece la recitazione “teatrale” di Elisabetta Piccolomini, una pecca imputabile in parte al ruolo – quello di Beatrice, la madre di Laura – stilizzato come un “carattere” da commedia d’altri tempi e in (buona) parte alla pluriennale esperienza dell’attrice sul palcoscenico.

Corretto, di buona fattura, se nel complesso non può dirsi una pellicola di particolare splendore, L’industriale presenta tuttavia non pochi spunti di riflessione, cinematografica e sociale. Peccato per quello scivolone verso la fine: la scena della videoconferenza, con i finti acquirenti giapponesi impersonati dallo staff del ristorante nipponico di fiducia, è francamente imbarazzante. Semmai ce la saremmo aspettata da un film dei Vanzina, con rispetto parlando.

Montaldo, nella cui filmografia tensione documentaristica e ricostruzione storica costituiscono motivi ricorrenti e sottintendono sempre un’attenta riflessione sul contesto sociale e politico, recupera anche in questo caso la vena engagée, ma traveste il documentario da noir e stempera il nero della cronaca nel grigio piombo di una Torino caliginosa.



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