Una sola inquadratura, la prima,
basta a contestualizzare geograficamente e psicologicamente la storia che sta
per essere mostrata: è “unistantanea” del Po che attraversa Torino avvolta
nella nebbia.
Nicola (Pierfrancesco Favino) è lindustriale del titolo: gestisce la
piccola fabbrica ereditata dal padre, inarrivabile modello di vita e
professionalità. Lazienda è in crisi, il rapporto con lamata moglie Laura (Carolina Crescentini), pure. Il film
“nicchia” su questa situazione di impasse
per tre quarti del suo svolgimento, salvo poi precipitare vorticosamente verso
un finale preannunciato. Lo si potrebbe definire una non-storia, in stile
antonioniano (si pensi a Lavventura, 1960 e Blow-Up, 1966), in cui anche se gli
ingredienti per un giallo o un crime
movie ci sono tutti (il sospetto, lomicidio, persino dei veri e propri
pedinamenti investigativi), il finale rimane irrisolto, sospeso sullo sguardo
in macchina di un Nicola scosso dal senso di colpa, eppure determinato. Del
resto i possibili riferimenti al cinema del maestro ferrarese non si limitano
alle scelte inerenti al racconto.
La fotografia plumbea di Arnaldo Catinari è senzaltro
lelemento che caratterizza maggiormente
il film, avvolgendo luoghi e personaggi in una luce livida e poco
contrastata, che confonde i primi con lo sfondo. La scala cromatica del film si
attesta infatti sui toni freddi desaturati, al limite del bianco e nero: è il
caso della sequenza dellomicidio, nel frammentario flashback di Nicola. Montaldo non è nuovo a questi giochi di colore
(vedi Sacco e Vanzetti, 1971) ma qui
lespediente, benché soltanto suggerito, assume una duplice valenza, da un lato
rievocando i codici espressivi del noir
(nelleffetto silhouette delle sagome
di Laura e il suo presunto amante in macchina ad esempio), dallaltro
raffreddando ulteriormente i toni cromatici, quasi a tradurre in immagini il
gelo della morte.
Daltro canto questa coloristica
al confine con la monocromia ricorda il già citato Antonioni di Blow-Up, nelle sequenze al parco in cui
Thomas vedeva e non vedeva lomicidio confondersi con la vegetazione. Anche qui
non cè certezza della visione e Nicola crede di aver visto un tradimento del
quale dubiterà anche lo spettatore a un certo punto, diviso tra le ragioni di
una Laura apparentemente sincera e quello che crede di spiare Nicola. Del resto
la scena irrelata dei mimi che Laura incontra a un semaforo sembrerebbe una
citazione esplicita di Blow-Up. Se in
quel film lerba grigio-verde del parco contrastava nettamente con i colori pop
delle fotografie di moda e della Swinging London, qui è il rosso ad accendersi
per contrasto sul grigiore di fondo, imitando un effetto (il lampo di colore
sul bianco e nero di base) già sperimentato da registi come Spielberg e Edgar
Reitz. Nel lungo camera car sui
manifesti di alcuni operai accampati fuori da una fabbrica (si intuisce il
riferimento alle recenti vicende dello stabilimento industriale Fiat
Mirafiori), il rosso degli striscioni che vediamo nella soggettiva di Nicola
dal finestrino della macchina, ci colpisce come ha colpito lui e allo stesso
tempo richiama la nostra attenzione sullattuale condizione socio-politica
italiana. Unallusione evidente al contesto nazionale è anche presente nella
scena dei cortei operai, ricostruiti per addizione di segmenti, nel montaggio
rapido di inquadrature della folla e pezzi di manifesti. Rosso in contrasto con
lo sfondo è anche il giacchetto che Laura regala al garagista Gabriel (Eduard Gabia) il quale – di nuovo in un
camera car – ci viene mostrato traguardando
dal finestrino della macchina che lo pedina. Quasi che quello fosse il colore
della ragione dei più vulnerabili: «hai fatto la guerra al mondo, eppure sei
stato capace di vendicarti sul più debole» dirà Laura a Nicola.
Ancora Antonioni è il termine di
paragone per la cromia ferrigna della sequenza iniziale di Deserto rosso (1964), che non a caso descriveva anchesso un paesaggio
industriale come la Torino presentata da Montaldo. In entrambi i casi, inoltre,
una coppia in crisi è protagonista della narrazione: lautore ci propone un
nuovo dramma dellincomunicabilità, in cui i soggetti interessati evitano il
confronto verbale franco e diretto.
Nella visione che ne dà Montaldo,
spesso i personaggi appaiono “persi” nello spazio che li circonda, che si tratti
di grandi stanze semi-vuote – linquadratura dallalto di Nicola, quasi un plongée, che cena da solo in sala da
pranzo, dà il senso di un opprimente isolamento – o di “non-luoghi” – come il
guado del fiume presso il quale Nicola dialoga con il suo commercialista, o il
lungo e asettico corridoio della banca che percorre guidato da unimpiegata e
ripreso dal basso di unangosciante carrellata, prima a seguire e poi a
precedere.
Il film ha un andamento
altalenante, caratterizzato da frequenti ellissi, spesso seguite da un flashback atto a colmare le lacune che
così si sono formate. Questa tendenza sinusoidale si ravvisa anche nella
colonna audio, segnata da ricorrenti raccordi sonori in cui il dialogo a
seguire inizia sulle immagini della scena precedente. Le musiche di Andrea Morricone, pur adeguate, mancano
dellefficacia tematica cui ci aveva abituato il più celebre padre, già collaboratore
del regista.
Nel ruolo del protagonista si
distingue Pierfrancesco Favino, capace di interpretare efficacemente e senza
sbavature una scena difficile come quella della discussione con lamico
paterno. Luomo prima lo rimprovera, poi gli fa una carezza e lui si scioglie
in lacrime: un passaggio delicato, ad alto rischio di patetismo. Nulla da dire
sulla Crescentini: la sua Laura passa inosservata.
Un po sopra le righe risulta
invece la recitazione “teatrale” di Elisabetta
Piccolomini, una pecca imputabile in parte al ruolo – quello di Beatrice,
la madre di Laura – stilizzato come un “carattere” da commedia daltri tempi e
in (buona) parte alla pluriennale esperienza dellattrice sul palcoscenico.
Corretto, di buona fattura, se
nel complesso non può dirsi una pellicola di particolare splendore, Lindustriale presenta tuttavia non
pochi spunti di riflessione, cinematografica e sociale. Peccato per quello
scivolone verso la fine: la scena della videoconferenza, con i finti acquirenti
giapponesi impersonati dallo staff del ristorante nipponico di fiducia, è
francamente imbarazzante. Semmai ce la saremmo aspettata da un film dei
Vanzina, con rispetto parlando.
Montaldo, nella cui filmografia
tensione documentaristica e ricostruzione storica costituiscono motivi
ricorrenti e sottintendono sempre unattenta riflessione sul contesto sociale e
politico, recupera anche in questo caso la vena engagée, ma traveste il documentario da noir e stempera il nero della cronaca nel grigio piombo di una
Torino caliginosa.
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