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Un ometto senza cuore meschino e spaventato

di Elisa Uffreduzzi
  J. Edgar
Data di pubblicazione su web 09/01/2012  

L’ascesa e il declino di J. Edgar Hoover (Leonardo Di Caprio), la sua ammirevole carriera negli uffici del Federal Bureau of Investigation, ci guida attraverso il passato recente della storia americana. Direttore dell'FBI dal 1924 al 1972,  sotto la sua vigile attenzione si successero vari presidenti degli Stati Uniti, da Calvin Coolidge e Roosevelt, fino a J. F. Kennedy e Richard Nixon. Ciascuno di loro fu oggetto di indagini altrettanto ostinate quanto quelle riservate alla lotta contro la criminalità: i dati di quelle ricerche, raccolti in un fantomatico archivio segretissimo, non saranno mai ritrovati.

Accanto al curriculum professionale apparentemente irreprensibile, emerge l’uomo, con la sua ferrea quanto discutibile morale, la totale dipendenza da una madre (Judi Dench) troppo autoritaria, il rapporto di reciproca stima e dipendenza con la fedele segretaria Helen Gandy (Naomi Watts), quello parimenti morboso e ambiguo con il braccio destro Clyde Tolson (Armie Hammer).

Proprio il fronte privato della sua biografia getta pian piano un’ombra negativa anche sull’operato professionale, incrinando la memoria delle sue gesta. Dopo la strenua lotta al gangsterismo, la cattura di John Dillinger, quella di “Mitragliatrice” Kelly (George R. Kelly) e del rapitore e assassino del figlio di Charles Lindbergh, durante il maccartismo si rese complice di poco limpide indagini a caccia di supposti simpatizzanti con il comunismo in territorio americano. Tra questi in particolare Martin Luther King. A partire da quest’ultima – per lui fallimentare – operazione investigativa, comincia la sua parabola discendente. Clint Eastwood ci regala un’altra delle sue narrazioni in costume basate su fatti realmente accaduti, con la grande Storia sullo sfondo. Un versante della sua filmografia, questo, al quale l’autore è più volte approdato, soprattutto negli ultimi anni della sua carriera dietro la macchina da presa (si pensi a Lettere da Iwo Jima, 2006 e Changeling, 2008, a titolo di esempio).




Lo stile piano e limpido è quello abituale del regista, che dopo gli effetti speciali e l’ampio ricorso al digitale in Hereafter (2010), torna qui a “trucchi” ben più tangibili, come il make up riservato a Di Caprio e Armie Hammer per le scene in età avanzata.

Il frequente ricorso a forti angolazioni di ripresa e le luci fortemente contrastate, se da un lato fanno parte del vocabolario espressivo del gangster movie e del noir, dall’altro sono funzionali alla resa psicologica dei personaggi e delle relazioni che tra essi intercorrono. Nella scena in cui la madre insegna a Edgar a ballare, la macchina da presa li osserva da un punto in alto a sinistra, cosicché i due interpreti risultano in basso a destra, come “schiacciati” dall’obiettivo, che ne fa due figure piccole e sinistre all’interno di un quadro angusto, avvolto nella penombra di una luce giallastra. Sapienti accorgimenti che danno la misura di un rapporto patologico e soffocante, in una manciata di secondi.

In una delle ultime inquadrature il protagonista giace a terra ormai morto: il corpo grasso e bianco mollemente accasciato al suolo è inquadrato dall’alto di una soggettiva di Clyde, che descrive un angolo acuto, la testa rimanendo semi-nascosta dalla spalla, certo anche per camuffare la maschera sul volto. L’angolazione scelta suggerisce che la macchina da presa si sta affacciando timidamente sul privato di un uomo estremamente riservato: è come consapevole della violazione che sta commettendo e allo stesso tempo vela di squallore e pietà quel corpo senza vita.

Di contro, nell’ultimo quadro Clyde che legge una compromettente lettera d’amore indirizzata a Eleanor Roosevelt, è ripreso da un angolo in basso a sinistra, mentre sta seduto sul bordo del letto del defunto: qui il punto di vista scelto traduce l’intimità del momento ma anche la “grandezza” morale di Clyde (che si trova quindi in alto a destra del frame) in contrapposizione alla “piccolezza” dimostrata nel privato da Edgar, tradotta come abbiamo visto dalla precedente inquadratura.




Accanto a simili espedienti registici, si ravvisa un uso insistito della panoramica, anche minima, che scandaglia spazi ampi e non, spesso partendo dalle inusuali angolazioni di cui si diceva. In una delle prime scene del film il giovane Edgar cerca di conquistare miss Gandy portandola alla scoperta della Library of Congress e del suo efficace metodo di catalogazione dei libri. Lo spettatore conosce lo spazio circostante insieme a Helen, grazie alla macchina da presa che si muove come una sorta di periscopio, girando sul proprio asse dal pavimento al soffitto e così via.

Di Caprio si produce nell’interpretazione di «un ometto senza cuore meschino e spaventato», come lo definisce Clyde, ligio al dovere professionale fino all’ossessione e a travalicarne i confini.

Già con l’Howard Hughes di The Aviator (Martin Scorsese, 2005) ci aveva offerto una maestosa interpretazione biografica, con un ruolo in cui analogamente la grandezza trascolorava nella patologia e nella meschinità. Se i nomi più noti del cast (Naomi Watts e Judi Dench) non disattendono le aspettative del pubblico, è il comprimario Armie Hammer a spiccare e distinguersi nonostante lo spesso strato di trucco e anzi soprattutto nelle delicate scene “in vecchiaia”, nelle quali tremore senile e sguardo sono incredibilmente equilibrati ed espressivi. A proposito del trucco, pur accurato è decisamente poco credibile: c’è da sperare che la tecnica impiegata vada affinandosi in futuro, perché il gonfiore diffuso che caratterizza nel film tutti i personaggi di una certa età, mal nasconde la finzione, venendo quindi meno alla prima regola di ogni travestimento: non farsi scoprire!

Lode a Eastwood per aver saputo suggerire con una delicatezza ormai – purtroppo – fuori moda l’amore omosessuale tra Edgar e Clyde, quasi avesse voluto adeguarsi allo stesso galateo perbenista (per la verità un po’ bigotto) in adozione negli anni in cui è ambientato il film. 

La narrazione condotta mediante il ricorso a ripetuti flashback, si avvale di un espediente che funge da tessuto connettivo all’intero film: Edgar riavvolge il filo dei ricordi allorché inizia a dettare la sua autobiografia a una serie di agenti dell’FBI, ai suoi occhi sempre inadeguati. L’andirivieni tra passato e presente, punteggiato dalle inquadrature di Hoover che si affaccia dalla finestra del suo ufficio, è vorticoso e continuo fino all’indagine su Martin Luther King: su questo scoglio s’infrange la sua carriera e qui cessano i ricordi, con un’accesa tirata di Clyde che in una delle ultime scene svela menzogne e incongruenze della carriera di Edgar, restituendo all’eroe dimensioni umane.



J. Edgar
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