Il pregiudizio della nostra contemporaneità sul decadentismo e le sue mitologie pesa senzaltro quando ci si accosti a opere di quel gusto lontano un secolo. Accade con Elektra di Hofmannsthal, allestito da Carmelo Rifici per il Teatro Stabile del Veneto (ora in tournée), dove la forza dimpatto immediata col dispositivo scenico di Guido Buganza orienta drammaturgicamente la dimensione letteraria del testo. Scenografia vagamente costruttivista e sospesa fra liperrealismo e il surreale sul palcoscenico genovese della Corte. Diverse scale sghembe collegano lo spazio esterno del Palazzo degli Atridi ai locali interni più segreti, accessibili anche da botole. Pareti e pavimenti, piastrellati come una macelleria o i bagni pubblici, vistosamente macchiati di sangue, sono aggrediti da Serve striscianti, intente a una pulizia impossibile, sotto le luci vivide e lugubri di Giovanni Raggi. Uninferriata in alto, una latrina, in basso, completano un luogo di claustrofobico incubo, in cui le protagoniste, col Coro, sono prigioniere. La cupa, forsennata eroina (traumatizzata dallassassinio del padre Agamennone), quando si presenta – già soggetto dei commenti delle laide operatrici – passa silenziosa leggendo un libro. Dallora, evoca il Principe di Elsinore e nella sua sterile rabbia vendicativa è tuttavia tesa allo sfogo fatale. Mi soffermo sullimpressione scenografica perché risulta il dichiarato segno riassuntivo dei moventi dellallestimento di Rifici e Pozzi, uno spettacolo complesso e preciso, ma ridondante per linsistita denuncia nei dettagli di un sovvertimento generale della realtà, da un punto di vista metamorfico e schizofrenico, originato dalla visione distorta di Elettra.
Elisabetta Pozzi durante le prove dello spettacolo
Sostiene il regista, partendo dal modello di Sofocle per intendere lopera dellautore austriaco: «Elektra è un testo poetico, non è poesia, non è drammaturgia […]. La poesia serve non a evocare un mondo, ma a rappresentare un luogo connotato dalla sua stessa lingua. Le parole in poesia di Hofmannsthal hanno il compito di scagliare addosso allo spettatore una serie di immagini e suoni atroci e bestiali tali da condurlo in uno spazio-prigione popolato di mostri, personaggi deformi nel corpo e nellanima». Terrifico programma, per cui vengono corrotte le apparenze dei personaggi e in quella sorta di simbolismo manicheo il Male trionfa deturpando le sue vittime. Così Clitennestra e Crisotemide (Mariangela Granelli e Marta Richeldi) portano una maschera rugosa ed Egisto (Alberto Fasoli) è invecchiato dalla barba bianca; e le uniche persone normali, in quanto strumenti di Giustizia, appaiono Elettra e Oreste (Massimo Nicolini). Quanto agli echi di Amleto, si propongono puntuali in analogie riscontrabili facilmente: Elettra abitata dal rovello del Principe dubbioso, affronta la Madre, Clitennestra simile a Gertrude; Elettra rimprovera la pavida sorella (identificata a Ofelia), con uno schietto «Vai in convento!»; Egisto dovrebbe far pensare allusurpatore-amante Claudio. E in conclusione, quando Elettra delira a vendetta compiuta, afferma: «Tutto il resto è…», sospende sul «silenzio» lultimo fiato di Amleto. Infatti Rifici assume la certezza dellispirazione shakespeariana dellautore: «Elettra, nellimpossibile viaggio per ritrovare la sua antica identità, incontra Amleto, il suo più prossimo parente […]. Un essere impossibilitato ad agire, chiuso nella prigione della sua stessa mente, appare a Hofmannsthal luomo contemporaneo».
Coerente dunque, fino allo scrupolo, la recitazione, pure se a volte vocalmente esasperata; dalle movenze innaturali e dalle rigidità e asprezze segnaletiche della patologia diffusa; il che contrasta col verismo a volte sensazionale (ma sarà per il linguaggio onirico, tradotto nella sensibilità di Freud già affacciatasi nei suoi primi studi a fine Ottocento) di gesti significativi esibiti, quali lorinare nella latrina o appendervi il capretto scannato e scuoiato per il sacrificio. Anche linterpretazione di Elisabetta Pozzi è «eccessiva», contraria però alla natura liricheggiante del testo. Le stupende qualità vocali dellattrice sono profuse, dispiegate in registri e volumi, per unesigenza totalizzante di espressione violenta e volgare, che un po saccumula in rapporto alle condizioni visive della messa in scena. Nascendo questa dalla ricerca e dal disegno della malattia dei personaggi, in essa Elettra vive una monomaniacale intenzione di vendetta attinta dal passato sempre attualizzato; mentre Clitennestra dimentica per rimozione e per questo soffre la perdita della coscienza di sé. Così nella scena dello scambio fra madre e figlia, montano le tensioni in duello verbale e la vittoria tocca alla giovane invasata, pure esistenzialmente così irresoluta. La dizione di «penetrante chiarezza» e di «febbrile lucidità» espressa dalla Pozzi (così giudicava Francesco Tei limpegno dellattrice interprete di Cassandra, lestate scorsa), si riascolta ora a contrappunto duna gestualità rotta, emersa dalla condizione disturbata. Appare funzionalmente sbrigativo – dopo lattesa e la sorpresa - lincontro con Oreste (Massimo Nicolini) indotto a eseguire il delitto come un automa. E ancora congruo, il riemergere della danza, strumento forse dellineffabile, del sentimento al punto delloltranza, suggerito da Hofmannsthal. Come pure affiora la necessità del canto, in Crisotemide che, nel vestitino infantile e nella maschera di bimba avvizzita, regredisce e culla la sua bambola; finché non trova la forza di rivendicare il diritto a un figlio vero, frutto dellamore più comune. Gli abiti, per le Serve, sono indumenti «da manicomio». In Elettra, il cambiamento del costume segnala diversità funzionali, perché allinizio adotta il nero di una giacca che fu elegante, poi giunge alla rude tenuta maschile di una canottiera sui pantaloni di tuta militare, al momento dellepilogo tragico. La musica di Daniele DAngelo si sviluppa in monotoni suoni concreti ricorrenti e in un rombo di tuono lontano, fino a un sontuoso finale orchestrale. E per laspetto sonoro, il ricordo spontaneo richiama il confronto con ledizione «acustica» del Teatro Mercadante di Napoli con la regia di Andrea De Rosa nel 2006, dove gli orrori venivano fatti intuire, più che mostrati, mediante una strepitosa sonorizzazione (curata da Hubert Westkemper) captata in palcoscenico, mixata e trasferita in cuffia agli spettatori.
Limpegnativa rappresentazione è incrementata dal contributo, anche mimico, delle giovani interpreti delle serve del Coro che, guidate con andamento coreografico, forniscono unimmagine efficace dello stato di detenzione. Un adattamento che, partendo dalla traduzione, esclude alcune comparse e include battute in grado di intonare a Shakespeare il clima e la situazione; nel finale, enfatizza listeria delleroina (sdraiata come in un letto di contenzione), impotente a qualsiasi catarsi. Soprattutto mediante la pregnanza figurativa della scena (ispirata allincisore Maurits C. Escher) e la connotazione psicotica dei personaggi, suscita una visione aberrante molto suggestiva, ma che offre un supplemento didascalico forse superfluo e lascia il rimpianto per la mancanza di unoperazione decisamente epurativa rispetto alla densità delloriginale.
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