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Piccoli eufemismi

di Roberto Fedi
  il cast di Alias
Data di pubblicazione su web 20/01/2003  
Ci siamo già occupati di Alias, l'eccellente serie iniziata domenica 12 gennaio (Raidue, ore 20.55). Questa è una postilla diciamo così filologica, che però ci permetterà forse qualche non inutile riflessione.

Chi ha visto l'episodio sa che la protagonista, Sydney, agente 'coperto' della CIA, a un certo punto viene presa prigioniera e torturata da alcuni perfidi criminali orientali. La ragazza viene picchiata, quasi affogata, legata a una sedia. A un certo punto, per farla parlare, le strappano addirittura un dente con una pinza - ovviamente senza anestesia. Sydney resiste: anzi, risponde con coraggio e disprezzo al boia ("Comincia dai denti in fondo", gli dice, quando questi la minaccia dell'estrazione).

È una scena durissima, insolita in un telefilm in prima serata. Molto ben girata, naturalmente. Il torturatore vuole sapere una password, un codice segreto. Sydney allora gli fa scrivere una serie di lettere dell'alfabeto, senza significato. "Scrivile di nuovo alla rovescia", sussurra la donna, coperta di sangue. L'uomo lo fa. In primo piano viene allora inquadrato il foglio, e la frase che ne risulta è "BITE ME". La voce del boia legge, fuori campo: "Arràngiati". Sydney lo guarda con un ghigno, stravolta. La tortura continua, peggiore di prima.

Ora, non è necessario essere un cultore dello slang nordamericano per intuire che lì c'è qualcosa che non torna. Siamo in una specie di mattatoio, la donna torturata vuole gettare in faccia al sadico criminale tutto il suo disprezzo, e il massimo che riesce a tirar fuori è una frasetta come se non volesse dirgli l'orario del tram?

La verità è che l'espressione ("bite me") è di quelle che non si dicono, di solito, in un salotto. Alla lettera significa "mordimi", sottintendendo quello che ogni lettore ha perfettamente capito. È quindi una frase volgare, che a rigor di logica potrebbe essere detta solo da un uomo. Ma è perfettamente coerente in quel contesto: la donna la dice per disprezzo, e anche per far capire, indirettamente, che il suo essere donna non modifica le cose. È dura, dura come un uomo.

È evidente che la traduzione sarebbe stata un po' problematica. Ma l'uso dell'eufemismo ci induce a qualche riflessione.

Prima riflessione. Le parole, evidentemente, sono pietre, e fanno ancora più paura delle immagini: e soprattutto le parole che hanno a che fare con il sesso. Perché la sequenza in questione (la tortura di una donna), spezzettata in varie scene che durano per quasi tutto l'episodio, è di una violenza bestiale e quasi insopportabile, eppure è stata tranquillamente fatta vedere in prima serata. Secondo noi hanno fatto bene (non ci piace la censura), perché il telefilm è eccellente e ben girato. Ma allora perché censurare la frase volgare, che in quel contesto non è fine a se stessa?


la palestra
                           Pamela Prati e Valeria Marini in La palestra


Seconda riflessione. La Tv (e qui Mediaset e la Rai si danno la mano) è piena zeppa di parolacce, di ogni tipo e volgarità. Per averne un campionario da antologia dell'orrido basta aver guardato, giovedì 16 gennaio su Canale5, ore 21 (prima serata), La palestra, film Tv di Pier Francesco Pingitore: quasi certamente il punto più basso mai raggiunto dalla fiction italiana di ogni tempo. Se ne sono sentite di tutti i colori: senza che nessuno abbia protestato, o abbia pensato di ricorrere a eufemismi.

E allora? Se ne deduce che la parolaccia, anche in Tv, è tollerata, anzi favorita, quando il contesto è, o dovrebbe essere, comico: meglio se anche romanesco. È un regresso, un ritorno imbastardito, alle farse sguaiate dell'avanspettacolo, o ancora più indietro: quando il dialetto imbarbarito serviva come veicolo per la risata grassa e senza decoro. E così lì, in quell'ambito senza dignità, tutto è permesso, dalla coprolalia alla volgarità più gratuita. Meditate, gente, meditate.




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