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Omaggio a Fokin

di Gabriella Gori
  Una scena della performance
Data di pubblicazione su web 05/11/2011  

Lo strepitoso successo di Omaggio a Fokin, lo spettacolo presentato al Teatro Regio di Torino dal Balletto del Teatro Marinskij di San Pietroburgo e dall’Orchestra e Coro del Regio diretti da Mikhail Agrest, impone prima di tutto delle considerazioni sulla perdurante attualità dei “classici” che, imperterriti, continuano a destare l’attenzione su di sé per la loro modernità. Ovvero quella capacità di essere sempre à la page in virtù dell’alterità – e dunque diversità – che li contraddistingue e mantiene inalterato il loro valore esemplare. Alterità che va a braccetto con quell’altrettanta capacità che hanno i “classici” di provocare – per dirla ‘alla Calvino’ – “un incessante pulviscolo di discorsi critici su di sé” ma di scrollarseli continuamente di dosso con elegante nonchalance.


Il Balletto del Teatro Mariinskij di San Pietroburgo in Le Spectre de la rose. Sulla sinistra Svetlana Ivanova
Il Balletto del Teatro Mariinskij di San Pietroburgo in Le Spectre de la rose. Sulla sinistra Svetlana Ivanova

Detto questo è superfluo ribadire il perché del meritato trionfo di Omaggio a Fokin, un’imperdibile occasione di rivedere quattro capolavori di Michail Fokin, artista e coreografo “necessario” all’ineguagliabile esperienza dei Balletti Russi di Diaghilev (1909-1929) e “necessitato” ad intraprendere la riforma del balletto ottocentesco. Quella riforma condensata dallo stesso Fokin in cinque punti, esposti in una famosa lettera inviata al «Times» nel 1914, in base alla quale il balletto è considerato un’opera unitaria nella quale danza, musica, scenografia, devono contribuire in egual misura alla realizzazione del dramma scenico e il coreografo da semplice “ordinatore di danze” si trasforma in una figura assimilabile al regista. Principi che furono condivisi da Fokin con l’impresario Diaghilev e che   risentirono del realismo professato da Stanislavskij e dal Teatro d’Arte di Mosca.

Nel ‘palinsesto’ ragionato dell’Omaggio a Fokin ‘torinese’, che annovera Danze Polovesiane, Le Spectre de la rose, La morte del cigno e Shéhérazade, è possibile cogliere i capisaldi della riforma fokiniana, non disgiunti dalla percezione della geniale modernità e dall’innovativa diversità di un “classico”.



Il Balletto del Teatro Mariinskij di San Pietroburgo in Danze Polovesiane. Al centro Alisa Sokolova
Il Balletto del Teatro Mariinskij di San Pietroburgo in Danze Polovesiane. Al centro Alisa Sokolova 

Danze Polovesiane è un balletto in un atto, tratto dal secondo atto de Il principe Igor di Aleksandr Borodin, che segnò il trionfale debutto dei Balletti Russi al Théâtre du Chatelet di Parigi il 19 maggio 1909. Contrassegnata dall’esotismo barbarico, questa creazione trasuda virilità ed energia coreografando un momento della prigionia del principe russo Igor e del figlio Vladimir presso Khan Končak, il capo tribù dei Polovesiani, ai tempi dell’invasione russa nel XII secolo. Al centro dell’accampamento le fanciulle danzano languidamente intorno al fuoco quando l’improvviso arrivo dei guerrieri e del loro comandante trasforma il ritmo delle danze che diventano maschie, guerriere, selvagge. Fabula motoria e corale, questo balletto colpisce per la sontuosità delle scene, gli sgargianti costumi di Nikolaj Roerich e l’interpretazione del Balletto del Marinskij. Un manipolo di danzatori e danzatrici con in testa Islom Baimuradov, Alisa Sokolova e Elena Baženova, che travolgono il pubblico con le loro danze geometriche, intrise di grazia femminile e irruenza maschile, e le movenze realistiche ispirate alla ‘lezione’ di Fokin che voleva un corpo espressivo “dalla testa ai piedi”.


Il Balletto del Teatro Mariinskij di San Pietroburgo in Le Spectre de la rose. Nella foto Igor’ Kolb e Svetlana Ivanova
Il Balletto del Teatro Mariinskij di San Pietroburgo in Le Spectre de la rose. Nella foto Igor’ Kolb e Svetlana Ivanova 

Un esaltante inno di guerra a cui fa da contraltare il raffinato lirismo del romantico Le Spectre de la rose. Un “quadro coreografico” ispirato a una poesia di Théophile Gautier, rielaborata da Jean-Louis Vaudoyer, su L’Invitation à la valse di Weber, e  riproposto con le scene i costumi di Léon Bakst e le luci di Vladimir Lukasevič. Presentato per la prima volta al Théâtre du Monte-Carlo il 19 aprile 1911 con Vaslav Nijinskij e Tamara Karsavina, questo balletto è una sorta di “divina oleografia” con al centro la ręverie amorosa di una fanciulla che, di ritorno da una festa con una rosa in mano, sogna di vedere materializzarsi il suo ideale maschile nello Spettro della rosa che entra in volo dalla finestra con un prodigioso grand jeté. Da lì con virtuosismi mozzafiato danza davanti alla ragazza, abbandonata su di una poltrona, e poi la invita a volteggiare assieme a lui, fino a che scompare dalla finestra con un ennesimo grand jeté. Lei, risvegliatasi, accarezza il delicato fiore, simbolo del suo sogno d’amore. Svetlana Ivanova è una fanciulla trepidante, languida, che risponde al richiamo dello Spettro della rosa, un portentoso Igor’ Kolb che resta impresso per la bellezza statuaria, l’impeccabile esecuzione dei passi della danse d’école e l’interpretazione ‘alla Fokin’ che non vuole meri esecutori ma veri interpreti che sono quel che fanno.


Alina Somova nella Morte del cigno
Alina Somova nella Morte del cigno 

E proprio in ossequio a questo principio di verità assoluta è l’altro masterpiece di Fokin, La morte del cigno, l’assolo creato sul Cigno de Le Carnaval des animaux di Saint-Saëns per Anna Pavlova nel 1907 e riproposto al Regio di Torino dalla meravigliosa Ul’jana Lopatkina. In soli quattro minuti Ul’jana dà una rappresentazione magistrale di questa famosa morte per l’intensità drammatica con cui mostra i fremiti e gli spasmi che preludono alla fine del candido uccello. E se alle lunghe gambe dell’artista poco concede la coreografia, tutto il ‘dettato’ si concentra sulla parte superiore coinvolgendo braccia, testa, collo, che vengono scossi da intensi singulti fino a quando il cigno-Lopatkina esala l’ultimo respiro in un inscindibile connubio ‘alla Fokin’ tra mimesis e pathos

Altro balletto ‘riformato’ è Shéhérazade, presentato in chiusura di serata con scene costumi di Anna Nežnaja e Anatolij Nežnyj dagli originali di Bakst  e luci di Lukasevič. Ideato da Fokin su musica di Rimskij-Korsakov e messo in scena per la prima volta al Théâtre National de l’Opéra di Parigi nel 1910 da Ida Rubinstein e Vaslav Nijinskij, Shéhérazade è una novella tratta da Le Mille e una notte che racconta la passione della bellissima Zobeide, la Favorita del Sultano Shaharyar, per lo Schiavo d’oro, il tradimento della donna, la morte della Schiavo, ucciso dal Sultano per gelosia, e il coraggioso suicidio di lei davanti a Shaharyar che non riuscirà ad impedire l’insano gesto.


Daniil Korsuncev e Ul’jana Lopatkina in Shéhérazade
Daniil Korsuncev e Ul’jana Lopatkina in Shéhérazade

All’insegna del realismo ‘fokiniano’ il balletto scorre veloce nell’harem di Shaharyar sontuosamente addobbato e animato dalle danze delle odalische e degli schiavi negri, inebriati dai piaceri di una festa trasgressiva che termina con l’improvviso arrivo di Shaharyar e dei suoi fedelissimi intenzionati ad uccidere tutti. E se lo spettatore è coinvolto da quanto accade sulla scena, ancora di più resta affascinato dai protagonisti, Zobeide e lo Schiavo d’oro. La sensualissima Viktorija Terëškina e il fascinoso Vladimir Škljarov ‘fokinianamente’ calati nella parte e preda del furor amoris che li travolge e traspare dall’erotismo dei passi e dei gesti di lei quando irretisce l’uomo con i conturbanti movimenti del corpo, delle braccia e delle gambe, mostrate in tutta la loro iperestensione. Un eloquente ‘linguaggio’ a cui rispondono i poderosi salti di lui e la mascolinità nell’afferrare con violenza e voluttà il corpo e l’anima di Zobeide. Vera eroina dell’immarcescibile capolavoro di Fokin e della sua provvidenziale riforma.   

 



Omaggio a Fokin
cast cast & credits
 

Michail Fokin
Michail Fokin



 
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