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This Must Be the Place

di Elisa Uffreduzzi
  This Must Be the Place
Data di pubblicazione su web 17/10/2011  

Per Cheyenne, ex rockstar dal cervello bruciato dalle droghe e dall’alcol, la morte del padre è il motore di avvio di un percorso, non solo fisico, che dalla Dublino dove conduce una comoda e annoiata esistenza, lo porterà a viaggiare attraverso gli Stati Uniti ma soprattutto lo condurrà alla vita adulta che rifugge da trent’anni: gli stessi in cui si è tenuto a debita distanza da un padre che non l’aveva mai accettato, sostenuto, amato. Sulle tracce del soldato nazista che ad Auschwitz aveva inflitto al padre pene indicibili, Cheyenne viaggia attraverso il paesaggio americano incontrando luoghi, personaggi e storie che, progressivamente, lo portano ad una maggiore consapevolezza di sé (e forse a conoscere meglio quel padre di cui non sa niente). Tra road movie e romanzo di formazione, Paolo Sorrentino conduce la sua fiaba surreale e grottesca riuscendo a rendere credibile l’inverosimile.

This Must Be the Place, la canzone dei Talking Heads (dall’album Speaking in Tongues, 1983) che dà il titolo al film, è il posto in cui trovare il vetusto aguzzino del padre e il luogo in cui capire che è tempo di vestire i panni dell’adulto. La splendida maschera immobile di Sean Penn dipinge sullo schermo una sorta di clown: la bocca troppo larga, gli occhi truccati; tutto amplifica espressioni ed emozioni che prorompono sullo schermo all’improvviso, imprevedibili ed eccessive come solo nell’infanzia può accadere.




«Qualcosa mi ha disturbato, non so dire cosa, ma qualcosa mi ha disturbato», dirà in più occasioni nel corso del film, con la stessa apparente insensatezza dei capricci di un bambino che però  nascondono un’impercettibile piega dell’animo colpita, offesa, umiliata.

Sorrentino si conferma uno dei giovani talenti del nostro cinema, con un film in cui sa toccare le corde dell’emotività camuffando la sensibilità dietro il rossetto di Cheyenne, proprio come ne Il divo aveva saputo dissimulare l’impegno civile con la satira politica. Torna il suo stile fresco e scattante, da videoclip, con il gusto per l’effetto sorpresa all’interno dell’inquadratura, dato ora dal personaggio inizialmente nascosto e poi scoperto dalla macchina da presa; ora da un inaspettato zoom all’indietro o da un’angolazione insolita; ora dalla panoramica a 360° che ci mostra l’ambiente circostante; ora dalle frequenti micro-ellissi temporali; ora infine dal gioco dei vari piani all’interno della stessa inquadratura. Punteggiano la scrittura visiva le ricorrenti inquadrature naturalistiche, in cui è il paesaggio delle lande americane a predominare e sorprendere – di nuovo – lo spettatore, attraverso magniloquenti vedute grandangolari. La fotografia del fedele Luca Bigazzi stavolta si distanzia nettamente dai precedenti film di Sorrentino, abbandonando il precedente stile asciutto per avvolgere le immagini in una patina retró.




Per maniera visiva e misura intimistica della storia, This Must Be the Place ricorda molto un altro road movie sui generis, The Straight Story  di David Lynch (1999), anche quello fatto più di silenzi che di sceneggiatura (qui l’autore è Sorrentino stesso, in coppia con Umberto Contarello) e in cui quello stesso paesaggio americano dove la poesia scaturisce dalla desolazione dominava lo sguardo. Non a caso nel cast scelto da Sorrentino torna Harry Dean Stanton (nei panni dell’inventore Robert Plath). Sorrentino affida a un’attrice come Frances McDormand la parte della moglie di Cheyenne: più volte attrice per i fratelli Coen, il suo volto porta con sé il ricordo di tanti loro film. Nel cast, oltre a Eve Hewson (la sedicenne fan di Cheyenne, Mary), figlia del cantante e leader degli U2, che fornisce una discreta prova, figura Judd Hirsch, interprete dell’ebreo “da farsa” Mordecai Levy che veicola con leggerezza il tema dell’Olocausto. Nel ruolo di Rachel – la nipote del nazista – che instaura con Cheyenne un rapporto di sintonia emotiva, Kerry Condon regala uno stralcio garbato ed eloquente di quell’America sbandata e depressa protagonista di tanti road movie. Il regista ha dichiarato di aver scritto questo film per Sean Penn che, senza ridondanze, sa calarsi perfettamente in un ruolo non facile, in bilico tra naiveté e spessore morale.

La colonna sonora, cui Sorrentino è sempre particolarmente attento e che spesso ha usato in contrasto con le immagini per enfatizzare il grottesco, è ancor più incisiva in questo racconto di una rockstar, ritratta a immagine del leader dei Cure, Robert Smith. Ne sono artefici il già citato David Byrne (presente nel film nei panni di se stesso), insieme al cantautore americano Will Oldham, specializzato in canzoni folk e country. Un mix brit-americano che ricalca a livello sonoro quello che le immagini – girate tra Irlanda e Stati Uniti – ci dicono visivamente.



This Must Be the Place
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