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Delle cause e degli effetti

di Paolo Patrizi
  La Juive (Foto di Miha Fras)
Data di pubblicazione su web 14/09/2011  

Secondo titolo, dopo Otello, importato al Festival di Lubiana dall’Opera Nazionale Lituana, La Juive difficilmente oggi rinfocolerà gli entusiasmi suscitati al suo apparire nel 1835 e il plauso incondizionato tributatole, nei decenni successivi, da Wagner e Mahler; ma è altrettanto improbabile che indurrà lo spettatore odierno a interrogarsi, ancora sull’onda di Wagner, sui vizi privati e le pubbliche virtù della Grand-Opéra: genere pletorico, esornativo e – agli occhi di molti – salvabile solo laddove riconducibile, tra tagli drastici e forzature stilistiche, sotto il grande ombrello verdiano o, appunto, wagneriano. Il famoso «effetti senza cause», frase con cui Wagner liquidava la Grand-Opéra negandogli dignità artistica, nella Juive non trova cittadinanza: se la macchina teatrale si diluisce nella mancanza di sintesi (la concisione è assente per statuto nel genere grandoperistico) è però indubbio che, nei cinque atti di Scribe e Halévy, ogni conseguenza del dipanarsi del plot ha un’origine drammaturgica ben precisa.

 


Foto di Miha Fras

 

Stando così le cose, il tentativo del direttore Martynas Staškus e del regista Günter Krämer di sottrarre La Juive alla dimensione ipertrofico-decorativa – che in punto di diritto rappresenterebbe l’essenza, non l’accidente, d’ogni Grand-Opéra – estrapolando dall’immenso affresco solo il nucleo del dramma, non appare arbitrario: è, piuttosto, un prendere atto della sua atipicità all’interno di questo genere. L’eliminazione degli intermezzi coreografici, di alcuni squarci corali chiamati a fare couleur locale, della seconda aria di Eudoxie (meramente pleonastica e ornamentale), di quanto insomma deliziava quella borghesia della Francia di Luigi Filippo per la quale il lavoro fu concepito, consente di concentrarsi sui personaggi (sotto questo profilo, però, è stato uno sbaglio la soppressione del primo duetto tra i due soprani): senza depistanti dispersività emergono meglio certe ascendenze verdiane, soprattutto nel carattere di Eléazar, genitore patologicamente possessivo come Rigoletto, ma anche disposto, come Azucena, a sacrificare la sua progenie per smania di vendetta. D’altro canto, il ridimensionamento del côté grandoperistico mostra come il talento di Halévy vada ricercato, più che nel melodizzare alla francese, in una sapiente armonizzazione alla tedesca. In questa prospettiva, i tagli sono utili pure a comprendere le ragioni dell’ammirazione di Wagner per quest’opera doppiamente semita (quanto alla trama e quanto al suo autore): entusiasmo altrimenti poco spiegabile, in un compositore nemico giurato non solo della Grand-Opéra, ma anche – per citare il titolo del suo celebre pamphlet – di ogni «giudaismo in musica».

 

Già autore a Vienna e Venezia di una messinscena della Juive (ma quello visto a Lubiana è un nuovo allestimento nato a Vilnius), Krämer trasferisce il quindicesimo secolo previsto dal libretto in un generico novecento, in grado di evocare qualunque persecuzione ebraica: anche se certi fugaci dettagli anni trenta lasciano intuire come il nazismo sia particolarmente vicino. È una regia che ha la capacità di non apparire antimusicale neppure in quelle soluzioni che, teoricamente, correrebbero tale rischio: il prologo muto che v’innesta (una serie di violentissimi flash, separati tra loro da qualche secondo di buio, che mostrano degli squadristi incappucciati in piena aggressione antigiudea con Eléazar sotto i loro manganelli, marchiato a fuoco da una stella di David sulla schiena nell’istantanea conclusiva) è emotivamente devastante, ma quando inizia a risuonare il primo accordo del preludio il ricordo dell’ultima immagine si fonde nella musica.

 


Foto di Miha Fras

 

Le scene, dello stesso regista, sono poi così disadorne da far pensare a una sorta di “anti Grand-Opéra”: eppure quelle veneziane – non del tutto dischiuse, ma neppure serrate – che fanno da elemento jolly consentono al pubblico di spiare i protagonisti (una situazione di grande fertilità drammaturgica per un’opera dove i personaggi mentono tra loro, ma lo spettatore è consapevole di tali menzogne) e, al contempo, di evocare un trasfigurato Muro del pianto. In linea con una lettura più “tedesca” che “francese”, Krämer sembra poi interessato non tanto allo scontro tra fedi religiose descritto da Scribe, ma a un umanesimo che guarda a Lessing e Nathan il saggio, all’utopia di una Verità non legata a un credo trascendente e in cui, dunque, tutte le religioni hanno pari dignità: salvo vederla vanificata, tale utopia, dalla cecità del potere e delle masse. Eléazar e il Cardinale Brogni perdono così gran parte della loro vendicatività e ambiguità, per assumere un profilo più “alto”, ma anche più fallimentare: non due singoli personaggi in collisione, ma l’Ebreo e il Cristiano, entrambi grandi ed entrambi sconfitti.

 

La direzione di Staškus sposa la causa di questa Juive “asciugata” (ma si veleggia comunque sulle tre ore e mezza di spettacolo) e ricondotta a una dimensione di dramma musicale, antispettacolare e antiedonistico: non a caso il momento più suggestivo, nella sua lettura, è una pagina severa come la celebrazione della Pasqua ebraica che apre il secondo atto. L’orchestra dell’Opera Nazionale Lituana – un organico cui manca forse una propria cifra sonora, non l’amalgama e la precisione – corrisponde bene a quest’idea d’imprimere alla musica un fluido andamento orizzontale, senza grandi picchi e cesure, ma tutto ciò non fa dimenticare che La Juive richiede cinque grandi voci, di cui almeno tre appartenenti ad artisti di superiore sensibilità interpretativa. Se a Lubiana non tutti rispondevano ai requisiti, il risultato complessivo poteva dirsi soddisfacente.

 


Foto di Miha Fras

 

Kristian Benedikt è tenore d’impasto scuro e centri corposi, al pari di quei pochi interpreti – da Caruso a Domingo – che nel corso del novecento hanno contribuito a tener viva la memoria dello straordinario ruolo di Eléazar: non può competere né con l’uno né con l’altro, sul piano del carisma come su quello della musicalità (l’intonazione negli attacchi non è infallibile, anche se si assesta rapidamente), ma resta innegabile la forte concentrazione – e, sulla distanza, l’emozione – che emerge che dal suo ritratto di padre, di “diverso” e di giustiziere. Gli dovrebbe fare da controcanto drammaturgico e vocale il personaggio del secondo tenore, il finto ebreo Léopold: tanto vacuo e veleggiante su alte tessiture quanto Eléazar è macerato e incline agli affondi baritonaleggianti. Purtroppo Edmundas Seilius non rende giustizia al ruolo, annaspando in area sopracuta e stemperando il taglio da opéra-comique della sua serenata in un momento quasi operettistico.

 

Nella parte dell’ebrea eponima, il soprano Joana Gedmintaitė difetta di quel sostanzioso registro grave richiesto da un personaggio di vocalità anfibia e, per molti aspetti, mezzosopranile: ha però un registro acuto luminoso che ritrae bene la gioventù di Rachel e l’impulsività adolescenziale alla radice del suo coraggio. Anche la fraseggiatrice – intensa, non altisonante – sembra assecondare un ritratto in chiave lirica piuttosto che drammatica, mentre Eudoxie, ruolo di soprano più leggero e virtuosistico, è stranamente affidata a una voce di maggior peso qual è quella di Regina Šilinskaitė. La proposta d’invertire le due interpreti, promuovendo a protagonista quest’ultima, è comunque da rispedire al mittente, troppe essendo le magagne vocali (soprattutto in termini di emissione) della Šilinskaitė. Quanto alla parte del Cardinale Brogni, che nei remoti anni di popolarità della Juive fu cara a Ezio Pinza, a Lubiana la si è sottratta alle fila dell’Opera Lituana per affidarla a una guest star. Riccardo Zanellato, da noi, è un basso in ascesa, non ancora una stella: auguriamogli che tale “partecipazione straordinaria” al festival sloveno sia propiziatoria. La voce più voluminosa che timbrata, e la capacità di sfumare il suono quasi esclusivamente in zona centrale, si direbbero spia d’una fonazione tuttora perfettibile, mentre il fraseggiatore appare, al tempo stesso, misurato e compenetrato. Le premesse per avere un bel Brogni, e un bel basso, ci sarebbero: speriamo che evolvano nel modo giusto.

 

 

La Juive
L'ebrea


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