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La genialità della tradizione

di Paolo Patrizi
  Zeljko Lucic in Macbeth (foto di Silvia Lelli)
Data di pubblicazione su web 29/08/2011  

L’interesse di un festival non si misura solo con il valore dei singoli spettacoli, ma con la possibilità di costruire un itinerario attraverso la geografia interpretativa di oggi. Salisburgo, quest’anno, ha rappresentato un ottimo termometro: da un lato proponendo gli ultimi due direttori di primissimo piano, appartenenti a generazioni diverse (Muti nel Macbeth, Thielemann nella Donna senz’ombra), capaci ancora di credere davvero alla grande tradizione romantica, italiana o tedesca che sia, e dall’altro confermando che si può fare geniale teatro d’opera passando attraverso il vaglio tanto dell’innovazione, come è stato per la regia di Marthaler nell’Affare Makropulos, quanto della tradizione. Ed è ciò che è accaduto con la messinscena di Peter Stein nel Macbeth.

 
Željko Lučić (Macbeth) in una scena
dello spettacolo (foto di Silvia Lelli)
 

L’arte direttoriale di Muti, d’altronde, con gli anni si è sempre più incanalata sui binari di un fuoco romantico non stemperato, ma esaltato da una severità classicista, e un’idea di suono (morbido, rotondo, di trascolorante pulsazione dinamica) dove il senso del bello è fortissimo, ma mai in un’ottica esornativa. Il suo tenersi lontano, che qualcuno scambia per retroguardia, dai registi troppo disinvolti verso le esigenze architettoniche della partitura è il frutto di quest’estetica – e anche etica – musicale: un modus operandi che trova perfetta simbiosi con la regia di Stein, autore di uno spettacolo asciutto e intensissimo, tutto all’interno delle sollecitazioni provenienti dalla musica di Verdi, salvo qualche occasionale libertà che serve solo a riportare l’opera in un alveo ancor più shakespeariano.

 

Opera-cerniera tra il giovane Verdi e il Verdi che verrà, Macbeth è d’altronde il titolo che meglio d’ogni altro illumina sulla parabola di Muti, nato come strepitoso interprete primoverdiano (il solo, oltre a Gavazzeni, in grado di sviscerare tutte le potenzialità drammaturgico-musicali degli “anni di galera”) e poi approdato con perfetta consequenzialità, senza cesure di sensibilità e stile, ai grandi capolavori successivi. Dunque – ecco il direttore da primo Verdi che riaffiora – le zone all’apparenza minori e convenzionali vengono evidenziate senza complessi, e restituite nella loro natura di musica eminentemente teatrale: nessun’altra delle grandi bacchette che si sono accostate a Macbeth ha saputo far trapelare, nel tema curiosamente villereccio che accompagna Duncan e il suo seguito, un senso di angoscia che anticipa come quella marcia, per il sovrano, sarà il suo funerale; così come nessuno ha mostrato con tanta chiarezza quanto d’ironico all’interno di una situazione tragica (dunque quanto di davvero shakespeariano) c’è nell’accompagnamento marcatissimo, a tutta prima grossolano e caricaturale, del coro dei sicari pronti a uccidere Banco.  

 


Un'altra scena del Macbeth (foto di Silvia Lelli)
 

Dall’altro lato, invece, Muti esalta nel Macbeth il Verdi più “alto” e pensoso, dove l’orchestra è sempre protagonista o coprotagonista, mai accompagnatrice: come l’iterazione della cellula melodica “a ondate” che puntella La luce langue, o quel “pianissimo” indicato con cinque p nel tema del sonnambulismo che sembra un’indicazione dinamica irrealizzabile, ma con Muti (e l’intermediazione dei Wiener Philharmoniker, si capisce) si trasforma da utopia sonora in suono autentico. Con un tale dominio drammaturgico da parte dell’orchestra si rischia quasi il paradosso di fare a meno dei personaggi: nel duetto tra baritono e basso sono gli strumenti, più che le voci, a raccontarci il diverso atteggiamento di Macbeth e Banco davanti alla profezia delle streghe, evidenziando alla perfezione il tema vacillante del primo e i perplessi “staccati” del secondo. D’altronde, in sette lustri di frequentazione con quest’opera, Muti ha gradualmente modificato la prospettiva, spostando il baricentro dai singoli personaggi all’elemento collettivo, umano (il popolo oppresso) o sovrumano (le streghe, appunto) che sia.

 

All’interno di questa spinta centrifuga rispetto alla centralità del canto solistico, Tatiana Serjan è comunque una Lady di grande risalto: tagliente senza essere monolitica, contrastata negli accenti e nei colori anche a rischio di compromettere l’omogeneità della fonazione, notevole per ampiezza vocale (sebbene si astenga dal Re bemolle nella scena del sonnambulismo) e capacità dinamica (talora solo intenzionale, ma sempre penetrante). Il che, comunque, non lascia inosservate le qualità di Željko Lučić, voce molto ben timbrata e incline, sul piano dell’interpretazione, a un Macbeth più barbarico che introspettivo, destinato a restare un po’ in superficie nel grande appuntamento con Pietà, rispetto, amore, ma che trova un’ottima occasione nel monologo conclusivo (a Salisburgo si è recuperato l’epilogo della versione del 1847, pur seguendo, per il resto, la consueta revisione di diciotto anni dopo). Dmitry Belosselskiy è un Banco che unisce la morbidezza di emissione alla perentorietà dell’accento, e in cui un’estensione da autentico basso si accompagna a una singolare limpidezza timbrica, mentre Giuseppe Filianoti dà al suo Macduff le rifrazioni di una voce oggi un po’ depauperata ma ancora molto bella, abbinata tuttavia a un certo pallore interpretativo: si avverte come la fatica nel gestire fiati e intonazione irrigidisca il fraseggiatore.

 


Un'altra scena dell'allestimento di Peter Stein
(foto di Silvia Lelli)
 

Come la direzione di Muti, anche la messinscena di Stein trova il suo centro nelle forze trainanti extraterrene piuttosto che nei campi elettrici generati tra i singoli personaggi. È uno spettacolo di totale essenzialità, eppure d’una completezza esaustiva: forse un solo elemento in più ne turberebbe l’equilibrio. Tanta teatralissima asciuttezza è, al contempo, suggerita ed esaltata dal luogo della rappresentazione: la Felsenreitschule, storico maneggio di cavalli, con i suoi tre ordini di logge scavate nella roccia chiamati a fare da cornice naturale. L’abnorme e spoglia lunghezza del palcoscenico che ne deriva consente a Stein una gestione dello spazio atipica, ma latrice dei momenti più intriganti sul piano visivo: il coro – si tratti del seguito di Duncan o degli esuli di Patria oppressa! – scorre davanti alla platea, al di là dell’orchestra, in un affresco cinereo che suggerisce la dimensione d’una tragedia cosmica.

 

Per il resto, Stein si discosta da Verdi (un’infedeltà alla lettera, non allo spirito) solo per essere più vicino a Shakespeare. Dove il bardo di Stratford-upon-Avon prevedeva un dispiego minimo di personaggi, ma la musica verdiana – per proprie esigenze – ha convertito questo minimo in masse corali, Stein torna all’originale: le streghe sono solo tre, come nella tragedia (plasticissimi mimi che imprimono un carattere sinistramente ermafrodita a quelle che, nel testo, dovrebbero essere donne barbute), e i sicari quattro di numero (quale verosimiglianza avrebbe un coro intero per uccidere Banco e suo figlio, se uno riesce a scappare?). Questo, naturalmente, non significa che manchi il coro delle streghe e quello dei sicari. Stein, però, li mimetizza, avvolgendoli di foglie e fronde: un mondo per anticipare la semovente foresta di Birnam dell’ultimo atto e, al tempo stesso, evocare quella “voce della natura” – talvolta matrigna – che aleggia nella brughiera di Shakespeare.

 


Tatiana Serjan (Lady Macbeth) in una
scena dello spettacolo (foto di Silvia Lelli)
 

Da uomo di teatro prima che di musica, Stein ha poi suggerito a Muti alcune manipolazioni; e Muti, da uomo di musica che conosce le ragioni del teatro, le ha accettate. Poco convinto che in Macbeth serva un innesto coreografico, il regista ha anticipato le danze del terzo atto a prima dell’aprirsi di sipario: efficace escamotage per trasformare una divagazione tersicorea in evocativo brano sinfonico. Il ripristino del finale – musicalmente meno articolato – del 1847 appare poi del tutto logico, poiché quest’epilogo, assegnando un ultimo primo piano a Macbeth morente, ci riporta al suo mondo d’incubi e incantesimi, vero protagonista della lettura di Muti e Stein. Sicché volendo scegliere, tra tante possibili, l’immagine-chiave dello spettacolo è bello optare per la piccola fata che, al termine del coro Ondine e silfidi, risveglia il protagonista privo di sensi: se c’era un aspetto di Shakespeare che Verdi – shakespeariano fervente, ma in un’ottica strettamente romantica – faticava a introiettare erano proprio gli improvvisi viraggi verso l’immaterialità sorridente di elfi e folletti. Quell’istantanea chiude il cerchio, e ci porta d’un colpo in pieno mondo elisabettiano e pieno mondo verdiano.

 

 

Macbeth



cast cast & credits

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


 

 


Tatiana Serjan (Lady Macbeth) in una scena dello spettacolo
(foto di Silvia Lelli)


 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


 

 

 


Željko Lučić (Macbeth) e Tatiana Serjan
(Lady Macbeth)
(foto di Silvia Lelli)



 
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