Linteresse di un festival non si misura solo con il valore dei singoli spettacoli, ma con la possibilità di costruire un itinerario attraverso la geografia interpretativa di oggi. Salisburgo, questanno, ha rappresentato un ottimo termometro: da un lato proponendo gli ultimi due direttori di primissimo piano, appartenenti a generazioni diverse (Muti nel Macbeth, Thielemann nella Donna senzombra), capaci ancora di credere davvero alla grande tradizione romantica, italiana o tedesca che sia, e dallaltro confermando che si può fare geniale teatro dopera passando attraverso il vaglio tanto dellinnovazione, come è stato per la regia di Marthaler nellAffare Makropulos, quanto della tradizione. Ed è ciò che è accaduto con la messinscena di Peter Stein nel Macbeth.
Željko Lučić (Macbeth) in una scena
dello spettacolo (foto di Silvia Lelli)
Larte direttoriale di Muti, daltronde, con gli anni si è sempre più incanalata sui binari di un fuoco romantico non stemperato, ma esaltato da una severità classicista, e unidea di suono (morbido, rotondo, di trascolorante pulsazione dinamica) dove il senso del bello è fortissimo, ma mai in unottica esornativa. Il suo tenersi lontano, che qualcuno scambia per retroguardia, dai registi troppo disinvolti verso le esigenze architettoniche della partitura è il frutto di questestetica – e anche etica – musicale: un modus operandi che trova perfetta simbiosi con la regia di Stein, autore di uno spettacolo asciutto e intensissimo, tutto allinterno delle sollecitazioni provenienti dalla musica di Verdi, salvo qualche occasionale libertà che serve solo a riportare lopera in un alveo ancor più shakespeariano.
Opera-cerniera tra il giovane Verdi e il Verdi che verrà, Macbeth è daltronde il titolo che meglio dogni altro illumina sulla parabola di Muti, nato come strepitoso interprete primoverdiano (il solo, oltre a Gavazzeni, in grado di sviscerare tutte le potenzialità drammaturgico-musicali degli “anni di galera”) e poi approdato con perfetta consequenzialità, senza cesure di sensibilità e stile, ai grandi capolavori successivi. Dunque – ecco il direttore da primo Verdi che riaffiora – le zone allapparenza minori e convenzionali vengono evidenziate senza complessi, e restituite nella loro natura di musica eminentemente teatrale: nessunaltra delle grandi bacchette che si sono accostate a Macbeth ha saputo far trapelare, nel tema curiosamente villereccio che accompagna Duncan e il suo seguito, un senso di angoscia che anticipa come quella marcia, per il sovrano, sarà il suo funerale; così come nessuno ha mostrato con tanta chiarezza quanto dironico allinterno di una situazione tragica (dunque quanto di davvero shakespeariano) cè nellaccompagnamento marcatissimo, a tutta prima grossolano e caricaturale, del coro dei sicari pronti a uccidere Banco.
Un'altra scena del Macbeth (foto di Silvia Lelli)
Dallaltro lato, invece, Muti esalta nel Macbeth il Verdi più “alto” e pensoso, dove lorchestra è sempre protagonista o coprotagonista, mai accompagnatrice: come literazione della cellula melodica “a ondate” che puntella La luce langue, o quel “pianissimo” indicato con cinque p nel tema del sonnambulismo che sembra unindicazione dinamica irrealizzabile, ma con Muti (e lintermediazione dei Wiener Philharmoniker, si capisce) si trasforma da utopia sonora in suono autentico. Con un tale dominio drammaturgico da parte dellorchestra si rischia quasi il paradosso di fare a meno dei personaggi: nel duetto tra baritono e basso sono gli strumenti, più che le voci, a raccontarci il diverso atteggiamento di Macbeth e Banco davanti alla profezia delle streghe, evidenziando alla perfezione il tema vacillante del primo e i perplessi “staccati” del secondo. Daltronde, in sette lustri di frequentazione con questopera, Muti ha gradualmente modificato la prospettiva, spostando il baricentro dai singoli personaggi allelemento collettivo, umano (il popolo oppresso) o sovrumano (le streghe, appunto) che sia.
Allinterno di questa spinta centrifuga rispetto alla centralità del canto solistico, Tatiana Serjan è comunque una Lady di grande risalto: tagliente senza essere monolitica, contrastata negli accenti e nei colori anche a rischio di compromettere lomogeneità della fonazione, notevole per ampiezza vocale (sebbene si astenga dal Re bemolle nella scena del sonnambulismo) e capacità dinamica (talora solo intenzionale, ma sempre penetrante). Il che, comunque, non lascia inosservate le qualità di Željko Lučić, voce molto ben timbrata e incline, sul piano dellinterpretazione, a un Macbeth più barbarico che introspettivo, destinato a restare un po in superficie nel grande appuntamento con Pietà, rispetto, amore, ma che trova unottima occasione nel monologo conclusivo (a Salisburgo si è recuperato lepilogo della versione del 1847, pur seguendo, per il resto, la consueta revisione di diciotto anni dopo). Dmitry Belosselskiy è un Banco che unisce la morbidezza di emissione alla perentorietà dellaccento, e in cui unestensione da autentico basso si accompagna a una singolare limpidezza timbrica, mentre Giuseppe Filianoti dà al suo Macduff le rifrazioni di una voce oggi un po depauperata ma ancora molto bella, abbinata tuttavia a un certo pallore interpretativo: si avverte come la fatica nel gestire fiati e intonazione irrigidisca il fraseggiatore.
Un'altra scena dell'allestimento di Peter Stein
(foto di Silvia Lelli)
Come la direzione di Muti, anche la messinscena di Stein trova il suo centro nelle forze trainanti extraterrene piuttosto che nei campi elettrici generati tra i singoli personaggi. È uno spettacolo di totale essenzialità, eppure duna completezza esaustiva: forse un solo elemento in più ne turberebbe lequilibrio. Tanta teatralissima asciuttezza è, al contempo, suggerita ed esaltata dal luogo della rappresentazione: la Felsenreitschule, storico maneggio di cavalli, con i suoi tre ordini di logge scavate nella roccia chiamati a fare da cornice naturale. Labnorme e spoglia lunghezza del palcoscenico che ne deriva consente a Stein una gestione dello spazio atipica, ma latrice dei momenti più intriganti sul piano visivo: il coro – si tratti del seguito di Duncan o degli esuli di Patria oppressa! – scorre davanti alla platea, al di là dellorchestra, in un affresco cinereo che suggerisce la dimensione duna tragedia cosmica.
Per il resto, Stein si discosta da Verdi (uninfedeltà alla lettera, non allo spirito) solo per essere più vicino a Shakespeare. Dove il bardo di Stratford-upon-Avon prevedeva un dispiego minimo di personaggi, ma la musica verdiana – per proprie esigenze – ha convertito questo minimo in masse corali, Stein torna alloriginale: le streghe sono solo tre, come nella tragedia (plasticissimi mimi che imprimono un carattere sinistramente ermafrodita a quelle che, nel testo, dovrebbero essere donne barbute), e i sicari quattro di numero (quale verosimiglianza avrebbe un coro intero per uccidere Banco e suo figlio, se uno riesce a scappare?). Questo, naturalmente, non significa che manchi il coro delle streghe e quello dei sicari. Stein, però, li mimetizza, avvolgendoli di foglie e fronde: un mondo per anticipare la semovente foresta di Birnam dellultimo atto e, al tempo stesso, evocare quella “voce della natura” – talvolta matrigna – che aleggia nella brughiera di Shakespeare.
Tatiana Serjan (Lady Macbeth) in una
scena dello spettacolo (foto di Silvia Lelli)
Da uomo di teatro prima che di musica, Stein ha poi suggerito a Muti alcune manipolazioni; e Muti, da uomo di musica che conosce le ragioni del teatro, le ha accettate. Poco convinto che in Macbeth serva un innesto coreografico, il regista ha anticipato le danze del terzo atto a prima dellaprirsi di sipario: efficace escamotage per trasformare una divagazione tersicorea in evocativo brano sinfonico. Il ripristino del finale – musicalmente meno articolato – del 1847 appare poi del tutto logico, poiché questepilogo, assegnando un ultimo primo piano a Macbeth morente, ci riporta al suo mondo dincubi e incantesimi, vero protagonista della lettura di Muti e Stein. Sicché volendo scegliere, tra tante possibili, limmagine-chiave dello spettacolo è bello optare per la piccola fata che, al termine del coro Ondine e silfidi, risveglia il protagonista privo di sensi: se cera un aspetto di Shakespeare che Verdi – shakespeariano fervente, ma in unottica strettamente romantica – faticava a introiettare erano proprio gli improvvisi viraggi verso limmaterialità sorridente di elfi e folletti. Quellistantanea chiude il cerchio, e ci porta dun colpo in pieno mondo elisabettiano e pieno mondo verdiano.
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