La fede ne tradimenti non va intesa, ovviamente, come “fiducia” nei tradimenti, ma sarebbe altrettanto impreciso interpretarla – in una sorta di terapia coniugale ante litteram – come “fedeltà” allinterno dei tradimenti medesimi. Lambiguità semantica (e, di riflesso, drammaturgica) di questo libretto scritto nel 1689 dal senese Girolamo Gigli, storico e commediografo di rimarchevole prolificità, ipotizza semmai una doppia etica, privata e pubblica: fedeltà negli affetti, tradimenti nelle lotte per il potere e nelle alleanze dinastiche. Il tutto in una cornice che occhieggia, non solo per lambientazione tra Navarra e Castiglia, al teatro barocco del Siglo de Oro, sottratto però alla sua componente allegorica e privato dintrecci collaterali. Il risultato? Unesercitazione di stile parodistica e, in fondo, satirica: la magniloquenza del plot sinnerva su una storia a soli quattro personaggi – due fratelli e due sorelle – programmaticamente antipsicologici nella loro stilizzazione caratteriale, mentre la ridondanza antiaristotelica che nel gran teatro spagnolo si traduceva in abbagliante fantasia diventa uno spiritoso teatrino sopra le righe.
Il libretto dopera, tuttavia, è un prodotto che assume differenti connotazioni a seconda della musica che lo riveste: e nel caso della Fede ne tradimenti va sottolineato come lintonazione di Attilio Ariosti (1701) glissi sugli aspetti ironici, puntando piuttosto sulla sobrietà del linguaggio, la fluidità dellarticolazione strumentale (che contribuisce a rendere più scorrevole una drammaturgia in sé prolissa) e una moralità tuttaltro che satirica, anzi a suo modo beethoveniana: col senno di poi è facile scorgere unanticipazione del Fidelio nelleroina che, travestita da uomo, sinsinua nel carcere dove langue in ceppi lamato bene. Sarebbe interessante verificare se i numerosi altri musicisti che attinsero al libretto di Gigli – spiccano i nomi di Sarro e Caldara, ma lelenco è lungo – siano stati più sensibili al versante ironico: in attesa che si recuperino nuove “fedi” e nuovi “tradimenti”, la Settimana Musicale Senese di questanno ha permesso almeno di aprire una finestra su un “minore” non trascurabile come Ariosti, finora più ricordato per le sue composizioni per viola damore. E pazienza se la causticità di Gigli ne esce diluita: Siena ha comunque omaggiato, con questo titolo, il proprio mordace concittadino.
Denis Krief prende atto che non sul versante parodistico lopera gioca le carte migliori, e dunque – servendo la temperanza del compositore più degli estri del librettista – firma uno spettacolo misurato nellimpaginazione e lineare nella narrazione. Moderno nei costumi ma piacevolmente antico nelluso del fondale dipinto (lode allartigianale sapienza del pittore Gino Bruni), geometrico ma non meccanico nel delineare i transiti degli affetti dalluno allaltro elemento delle coppie in gioco, lallestimento sfrutta bene langusto spazio a disposizione: gli strumentisti convivono con naturalezza insieme ai cantanti (il Teatro dei Rozzi è sprovvisto di fossa orchestrale) e a delineare il territorio di castigliani e navarresi basta un tavolo tondo per i primi, una pedana per i secondi. Krief, insomma, si conferma regista capace dindividuare una terza via tra spettacoli estetizzanti allitaliana e spettacoli concettuali alla tedesca: una strada che non lha messo al riparo da qualche scivolone nel grande repertorio ottocentesco, ma nel barocco e nel moderno gli ha consentito esiti interessanti.
Fabio Biondi, come sempre nella doppia veste di violinista e direttore, ha condotto il suo ensemble Europa Galante con la sicurezza di chi, con quellorchestra, ha un rapporto ultraventennale. Non ha però fatto molto per arricchire di contrasti una partitura che, spesso legata alla dialettica recitativo secco / aria con accompagnamento del basso continuo, era difficile vivificare sul versante timbrico, ma poteva apparire più variegata sotto il profilo agogico. La scrittura delle voci, poi, appare forse prevedibile – a orecchie di oggi – negli affondi belcantistici già pienamente settecenteschi, e più interessante nei rimandi ai modi canori di quel diciassettesimo secolo appena concluso quando lopera di Ariosti approdava in scena: il recitar cantando che traduce lunico momento arrovellato di una figura tutta dun pezzo come Garzia, antitetico a quella coloratura aggressiva con cui poco prima il personaggio dava voce alla propria ferocia, è uno sprazzo di ottima drammaturgia vocale; e anche la condotta contrappuntistica di certi duetti non è solo un rinvio a stilemi seicenteschi, ma contribuisce a esprimere lidea di unincompatibilità – anziché di una fusione – tra i due affetti presenti in scena. Tuttavia resta limpressione che, sotto questo fronte, Biondi abbia assecondato le capacità dei singoli cantanti, più che stimolarle.
Capacità che, peraltro, erano assai variabili. Delle due coppie, infatti, quella di Navarra si pone svariati punti indietro rispetto a quella di Castiglia: lemissione ingolata e lintonazione ondivaga del basso Johannes Weisser, unica voce maschile del quartetto, attribuisce a Garzia effetti talvolta parodistici, e purtroppo si tratta dun parodistico ben diverso da quello – di raffinata consapevolezza stilistica – serpeggiante nel libretto di Gigli; mentre Roberta Invernizzi ha assai miglior dominio del proprio strumento, abbinato tuttavia a un fraseggio che riduce ad affondi isterici gli slanci delleroina Anagilda, amante gelosa e guerriera in incognito. Lucia Cirillo, invece, flette la sua minuscola voce ad esiti di cangiante espressività. A dominare il palcoscenico (anche perché è sua la pagina più bella dellopera: un“aria di prigione” dolente e quasi trasfigurata) è però Marianne Beate Kielland, alle prese con un impavido quanto donchisciottesco personaggio en travesti. Voce ambrata, morbida, flessibile, ecco un mezzosoprano da tenere a mente. Peccato che in acuto appaia tanto voluminosa quanto fissa: ma forse è lacustica del Teatro dei Rozzi, che tende allenfasi e al riverbero dei suoni più alti, a sottolineare questo limite.
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