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Da cento trappole a mille cabale

di Paolo Patrizi
  I due Figaro
Data di pubblicazione su web 27/06/2011  

I due Figaro – quello vero e l’impostore – non sono solo i protagonisti dell’opera di Mercadante su libretto di Felice Romani andata in scena al Ravenna Festival, a suggello del quinquennale progetto di Riccardo Muti attorno a quel “brodo di coltura”, destinato a far germinare materie musicali viventi assai diverse tra loro, che accomuniamo sotto il nome di Scuola Napoletana. Verrebbe da dire – con una sorta di sineddoche operistica – che sono pure i due padri musicali di quel personaggio, il Rossini del Barbiere e il Mozart delle Nozze: numi tutelari, o stella polare al quadrato, di questo lavoro, per il compositore non meno che per il librettista.

 

Ideare un proseguimento – un sequel, si direbbe oggi – per vicende e personaggi radicati nell’immaginario del pubblico è un’antica astuzia, con l’occhio più alla cassetta che all’arte, nel mondo dello spettacolo: ci pensò nel 1791 pure Honoré-Antoine Richaud Martelly, ingegnatosi a raccontare come erano ormai scoppiate le coppie ricompostesi nel Mariage de Figaro, battendo sul tempo lo stesso Beaumarchais che, un anno più tardi, avrebbe concluso la propria “trilogia di Figaro” con La mère coupable. E siccome già dal 1782, grazie al Barbiere di Siviglia di Paisiello, il personaggio del barbitonsore-factotum creato dal drammaturgo francese era diventato un’icona per il mondo del melodramma, teatro in musica e teatro in prosa continueranno a interagire volentieri sotto il segno di Figaro: una geografia drammaturgica che troverà le punte di diamante nelle creazioni di Mozart / Da Ponte e Rossini / Sterbini, ma dove anche il libretto di Romani basato sul Martelly di Les deux Figaro avrà il suo peso, se si pensa che – prima di Mercadante – era stato già messo in musica da Carafa, e che dopo il compositore di Altamura altri operisti, non solo italiani, attingeranno al canovaccio dei Due Figaro.

 

 

Più innocuo delle Nozze mozartiane sotto l’aspetto sociale, e meno eversivo del Barbiere rossiniano sotto il versante comico, il lavoro di Mercadante dovette però sembrare pericoloso alla censura – quella spagnola, almeno: composto per Madrid intorno al 1826, riuscirà a vedere la luce solo nel 1835. Difficile oggi capirne le ragioni, perché l’intreccio inclina più alla pochade che alla satira e l’architettura musicale rispecchia la sensibilità classicista di Mercadante, piuttosto che rivelare un’empatia con le trasgressioni del comico. Più facile, invece, comprendere i motivi dell’innamoramento di Muti per questa partitura: un direttore che si è finora tenuto lontano dal Rossini del Barbiere (ma pure da tutto il Rossini buffo in generale), e che all’interno delle ricognizioni comiche nella Scuola Napoletana ha raggiunto gli esiti più memorabili in un autore di alto oggettivismo strutturale come Paisiello (se ci si può aspettare un Barbiere di Siviglia da Muti in futuro è proprio quello paisielliano), sa valorizzare al meglio quella dialettica tra elementi formali vetusti e originalità armonico-ritmiche spesso presente in Mercadante.

 

Molto ben servito dagli strumentisti dell’Orchestra Giovanile Luigi Cherubini, il direttore esalta gli spunti divertenti di quest’opera, che sono d’ordine stilistico prima che drammaturgico: le citazioni musicali esplicite (il Rossini della Cenerentola) come quelle in filigrana (Barbiere, ovviamente, ma anche Finale primo dell’Italiana in Algeri) sono ben percepibili e, tuttavia, mai calligrafiche; mentre certi spagnoleggianti ritmi di danza, ricorrenti a livello strumentale e vocale, non s’impantanano nella couleur locale ma conducono – forse al di là delle aspirazioni dello stesso Mercadante – a una semiotica timbrica che suggerisce una Spagna tanto cartolinesca quanto mistificatoria, speculare alla mistificazione di Cherubino nei panni del falso Figaro. La compattezza e la varietà dinamica dei “crescendo”, il governo millimetrico di ensemble e concertati (in quest’opera i brani d’insieme sono molto più articolati e originali di arie e duetti), la capacità di trasmettere tutta la grandiosità del Finale primo (cui Mercadante assegna complessità formale da opera seria) restano poi momenti di altissima arte direttoriale.

 


 

Se la musica è debitrice in primo luogo a Rossini, il testo occhieggia paritariamente al Pesarese e al Salisburghese: dal punto di vista della versificazione Romani omaggia la librettistica rossiniana (l'“insieme” «Non si tratta in nessun modo né di gruppo né di nodo» rinvia al «nodo avviluppato» e al «gruppo rintrecciato» della Cenerentola, le «cento trappole» che Rosina fa giocare nel Barbiere qui si convertono nelle «mille cabale» di cui Susanna si dice maestra), ma i meccanismi della trama – dalla stanza in cui chiudersi a chiave per nascondersi al giardino notturno come luogo della resa dei conti – ricalcano più d’un tòpos delle Nozze di Figaro. Quasi esclusivamente a Mozart sembra appunto guardare la regia di Emilio Sagi: sensibile alle dinamiche tra i personaggi più che alla gioia dell’inventiva comica e tendente a riproporre un Settecento formale ed elegante, ma alquanto impermeabile all’intermediazione ottocentesca di Mercadante.

 

Il cast si raccomanda per l’affiatamento complessivo e una dizione nitida e frizzante da parte di tutti: due qualità su cui Muti in prova lavora molto, e che hanno caratterizzato ogni suo repêchage della Scuola Napoletana in questi cinque anni. Possono invece dispiacere – e anch’essa è stata una costante degli spettacoli precedenti – i limiti vocali di alcuni interpreti. Soprattutto Mario Cassi (il Figaro “vero”) è un coprotagonista inadeguato: alle prese con una scrittura basso-baritonale troppo lontana dalle sue caratteristiche di baritono tenoreggiante cerca risonanze scure forzando l’emissione – la cui crudezza rende deficitari i momenti di canto morbido e legato – e intorbidando il suono, né sostenendolo in alcun modo nei “piani”. Un suono ben timbrato e proiettato è invece la caratteristica dell’altro baritono, Omar Montanari, che modella con spirito e plasticità i recitativi del personaggio, molto metateatrale, del commediografo guastafeste e demiurgo suo malgrado. Mentre sul fronte tenorile Antonio Poli è un Conte d’Almaviva di buoni mezzi naturali (la voce scorre sonora e impreziosita da smaltature accattivanti), ma perfettibile quanto a musicalità, come sembrerebbero mostrare le incertezze nella sua grande aria, d’altronde alquanto impervia.

 


 

Più salde le voci femminili, a cominciare dal finto Figaro, alias Cherubino: un Cherubino ancora una volta en travesti, ma alle prese con una scrittura virtuosistica che guarda ai contralti rossiniani più che alla levigatezza di Mozart. Annalisa Stroppa, giovanissima, non ha forse raggiunto una piena maturità fonica per questo tipo di vocalità: l’interprete però è tutt’altro che acerba, e l’improbabile Cherubino/Figaro diventa un vero personaggio. Asude Karayavuz – buona voce e ottima pronuncia – conferisce alla Contessa giusta miscela di bon ton aristocratico, derivato dall’omologo personaggio mozartiano, e retroterra popolaresco, atto a ricordarci che quella nobildonna, prima di convolare a nozze, era la vispa Rosina del Barbiere. Rosa Feola ottempera con correttezza al ruolo dell’innamorata in ambasce, ma la parte di primadonna spetta a Susanna: Eleonora Buratto, grazie a una voce luminosa e a una spigliatezza virtuosistica che si riverbera pure sul piano scenico, ne fa un personaggio vivido e umanissimo, degno del suo precedente mozartiano.

 

Tuttavia, ad apparire irrisolto è proprio il transito dei protagonisti dal mondo di Mozart a quello di Mercadante. In questa sorta di “vent’anni dopo” (in realtà solo dodici, avremo modo di appurare) la “commedia umana” di allora torna a incanalarsi sui binari della farsa: come se, invecchiando, Figaro e Susanna, Conte e Contessa non avessero più le energie per affrontare troppi psicologismi. Solo con Cherubino il tempo si è fermato: frenesia psicomotoria e tendenza al travestimento restano quelle delle Nozze, e l’unico segnale che neppure lui è quello d’un tempo sta nella fedeltà all’amata Inez, dissonante con quella tendenza a palpitare per ogni donna che costituiva il cuore del personaggio mozartiano. Più in generale, forse, la ragione per cui un’opera dell’interesse dei Due Figaro non è entrata in repertorio sta proprio in questo: ripropone figure che Mozart e Rossini avevano reso archetipiche, ma concedendo loro il fisiologico diritto all’appannamento e alla stanchezza. E nel mondo del melodramma non sembra esserci spazio per archetipi invecchiati.


I due Figaro
o sia il soggetto di una commedia


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