Non era un “uomo di mondo”. Si era spostato e faceva parte del mondo del teatro. Non era nemmeno un uomo di potere, benché molti giovani degli ultimi trentanni labbiano percepito proprio come un uomo di potere, bevendosi le proprie percezioni come fatti reali. Non era un “critico”, non nel senso duna di quelle persone che brandivano lautorità di metter bocca nella difficile arte dei teatri. Lautorevolezza di spettatore competente se lera conquistata da solo, senza nomine giornalistiche o accademiche, prima ancora dei trentanni, viaggiando nel teatro per ogni dove. Non di rado pagò di tasca propria la propria attività e le proprie iniziative. Così credo che abbia fatto fruttare (che cioè abbia consumato) i suoi guadagni e una rendita famigliare. Si comportò da ricco ed è morto povero. Era un vero uomo di cultura, uno di quelli che la cultura la fomentano e non lamministrano.
Era una brava persona? Certamente. Era equanime, imparziale? Mai. Sempre seriamente motivato nelle sue parzialità. Il vizio peggiore – essere spassionato – non lebbe mai. Sapeva nutrire nel proprio foro interiore emozioni e passioni anche invecchiando. A volte era difficile sopportarlo, perché nutriva capricci e si cavava la voglia di piccole arbitrarie vendette. Ma i capricci non erano mai simili ai capricci di plastica esibiti come uno status symbol dai baroni dei giornali, delle accademie o delle amministrazioni. Le vendette capricciose erano in prima persona, mai appese allimpalcatura del ruolo, mute e furiose come quelle dei bambini e delle bambine. Imperscrutabili, insormontabili. Non si poteva evitarle, bisognava aspettare che svanissero da sé. Svanite, potevano lasciare qualche graffio e qualche rabbia. E però mai il sapore del disgusto.
Era amabile? Poteva essere molto amato. Ma era amabile? No. Niente surrogati. Danimo gentile? Ma spesso scorbutico e spinoso nei modi. A volte dolcissimo.
Ora, in questinizio di primavera, scriviamo titoli daddio, di rimpianti per la sua “scomparsa”, ripetiamo che “se nè andato”, che “ci è venuto a mancare”. Continuiamo ad illuderci che “scomparsa” e “mancanza” siano eufemismi al posto di “morte” – mentre è questultima, semmai, ad esser la parola meno dura. Perché “Addio”? Che senso ha dire che “se ne è andato”? Ce lo troveremo a lungo fra i piedi, e se lo troveranno coloro che riescono ad amare i piccoli laghi del teatro.
Forse che se ne andò, allinizio della primavera del 1955, Silvio dAmico? Ancora oggi ci sorprendiamo ad esser pensati da pensieri che vengono dal vecchio dAmico. Figuriamoci quanto a lungo continueranno a venire fra i nostri i pensieri gli atti di Franco Quadri.
I due, dAmico e Quadri, hanno fra loro prepotenti e non volute corrispondenze. Nella cultura teatrale italiana del Novecento, occupano posizioni simmetriche per importanza, e speculari per impostazione. Ambedue agirono per rendere degno lecosistema dei teatri, il territorio che amavano. Si dedicarono alle sue diverse zone, agli angoli ed ai canali ingombri o inoperosi. Cercarono di approntare gli spazi materiali e immateriali in cui far dialogare lItalia col resto del mondo; il teatro con le altre arti; il presente col passato. Si adoperarono per preservare la memoria delle persone facili da dimenticare, per trasmetterne le esperienze, per dare un minimo di sensatezza alleconomia delle imprese sceniche, per garantire loro il necessario respiro. Si batterono contro le malattie professionali di arti e mestieri basati sulleffimero. Ma mentre luno, Silvio dAmico, tentò di materializzare una buona regola, laltro capì che bisognava orientarsi sulle eccezioni, sul nugolo delle esperienze incompatibili, sulle periferie, sulle voci contraddittorie che scompigliano le carte e i piani culturali regolatori. Luno sognava lavamposto di unAccademia, teatri modello, unenciclopedia dalta qualità. Laltro, cascate di informazioni in subbuglio, artisti in contraddizione, scontri fra esperienze incompatibili, attriti capaci di sprigionar scintille. Luno aspirava allurbanistica duna cittadella darte. Laltro, ad allestire con cura lo spreco premeditato dei banchetti. Silvio dAmico era figlio della fisica galileiana. Franco Quadri, della patafisica.
Ma benché la patafisica ironicamente si presenti come scienza delle eccezioni, dei particolari, delle potenzialità e delle soluzioni immaginarie, essa si è dimostrata la più sensata, la più adatta alla vita del teatro nella seconda metà del secolo scorso. Quando si vide come la buone regole di fatto castrassero le buone pratiche. E si capì dove andassero a finire, per esempio, le belle idee, i teatri stabili, lAccademia dArte Drammatica, e persino lidea dun buon piano politico pei teatri. Ci fu – farsesca – linterminabile attesa duna legge nazionale sul teatro: innumerevoli convegni e dibattiti in cui pensosi esperti con i piedi apparentemente per terra, sempre diversi e sempre eguali, con la lingua di legno dei politicanti, si presentavano al microfono brandendo le cifre e gli atti ufficiali delle commissioni, avvertendo allarmati che era il caso di smetterla “di farsi pugnette”, visto che la Legge era lì, quasi pronta, praticamente pronta, imminente, e bisognava intervenire sùbito o mai più, di corsa, ché già sera fatto tardi. E passò così, fra queste “urgenze” mezzo secolo.
E intanto lillusione più patetica e potente, quella della buonafede, ispirava onestissime denuncie sulliniqua distribuzione delle sovvenzioni, mentre le orecchie patafisiche già sentivano lo scalpiccio dei ministeri servili addetti a tagliare le pubbliche risorse agli artisti inadatti a versare e far versare voti utili nelle urne.
La logica patafisica è tutto sommato la più ordinata e sadatta alla vita delle arti – che se son vive sono imprevedibili. Funziona per sintomi, esempi, fatti compiuti. Avendo lautonomia culturale e i gusti personali necessari per frequentare vie parallele rispetto a quelle degli organizzatori di professione, Franco Quadri poté essere intellettuale genuino ed efficace organizzatore. Con gli organizzatori di professione sapeva dialogare ben attento a non adeguarsi ai loro costumi ed alle loro vedute. I suoi sembrarono a volte colpi di mano, paradossi voluti, solidarietà partigiana per i teatri ribelli, festival che parevano irridere alla logica istituzionale dei festival. Perlustrò lintero immateriale territorio teatrale. Rivitalizzò angoli inerti, la lana mortaccina, per esempio, composta dalla congiunzione duna stanca letteratura drammatica e dunaltrettanto fiacca indifferenza nei confronti del teatro in forma di libro. Inventò persino un sistema di premi, perché i piccoli laghi del teatro hanno anche bisogno di premi e competizione. Si dirà che non aveva un coerente programma. Che tutto questo era il risultato di invenzioni personali e serendipità. Effettivamente era intelligente serendipità. Semplice e logica arte del camminare. Si fece editore. Si guardò intorno, vide che non cerano più buoni annuari di teatro e si inventò il «Patalogo», qualcosa che parve allinizio il non plus ultra duna trouvaille, di cui ora non si saprebbe fare a meno. Si dice che sia uninesauribile miniera di informazioni, e lo è, ma una miniera le cui gallerie hanno le fantasie, le feste e le libertà dellAbbazia di Thelème pensata da Rabelais.
Era un solitario e radunò attorno a sé persone accese e raffinate. Sembrava spesso “strano”, ma in realtà era semplicemente un buon politico, un assennato organizzatore, una persona di gran buon senso, ottimo conoscitore del suo terreno dazione, dove non si illudeva potessero risultare assennati i paradigmi e i cliché degli addetti alle politiche culturali. Se ne rese conto sùbito: nel mondo spostato dei teatri il buon senso consiste nellallontanarsi del senso comune. Il quale viene da fuori, non è organico ma inculcato. Non cè nientaltro daltrettanto efficace, che richieda intelligenza e scaltrezza, ma permetta di far quel che si deve e si vuole facendo male a nessuno.
Non esageriamo con le commemorazioni. Serve imparare. Costretti a vivere nel disgusto, sappiamo fin troppo che resistere non basta.
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