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Vacis il Saggio

di Gianluca Stefani
  Crociate
Data di pubblicazione su web 28/03/2011  

C’è bisogno, oggi più che mai, di un teatro civile in senso brechtiano come quello di Gabriele Vacis. Un teatro in grado di far pensare lo spettatore, alla larga dagli schiamazzi dei soliti-noti salotti televisivi e dai bombardamenti mediatici. Teatro “impegnato”, che aiuti a capire il presente, magari attraverso la riscoperta dei classici, meglio se capolavori semidimenticati (almeno in scena, almeno da noi). È il caso di Nathan il Saggio, poema drammatico di Gotthold Ephraim Lessing, vero e proprio manifesto illuministico di tolleranza religiosa, o piuttosto di tolleranza tout court. Un’opera tardosettecentesca ambientata in Terrasanta all’epoca della terza crociata, ma che parla al nostro tempo meglio forse di quanto potrebbe fare qualsiasi testo contemporaneo, confermando, se ancora ce ne fosse bisogno, come le magnifiche sorti progressive dell’uomo siano poco magnifiche e punto progressive. Una lezione “alta”, contenuta in una favola didascalica da far (ri)studiare anche nelle scuole.    

Vacis rielabora il Nathan lessinghiano facendone il fulcro di un monologo personale, e lo affida al talento istrionico di Valerio Binasco, mattatore capace di mille espressioni e mille sfumature della voce. Durante la performance, l’ex collaboratore di Branciaroli dapprima introduce il tema delle crociate, con punte di ironia dolceamara, dimostrandosi affabulatore dotato di leggerezza (ma quanto intrisa di pesantezza del vivere!). Poi inizia a narrare la storia dell’ebreo Nathan, impersonando senza soluzione di continuità tutti i personaggi del dramma, dal giovane templare alla bella fanciulla Racha, dall’ottuso Patriarca di Gerusalemme al Saladino (che non era “feroce”, con buona pace di certe vecchie figurine da collezione).


Valerio Binasco in un momento dello spettacolo

Ne risulta un one-man-show di indubbia efficacia, agile nel manovrare i fili ingarbugliati di più livelli temporali, tagliente nei riferimenti all’attualità: i soldati pronti a partire per le missioni di guerra (leggi: di pace) senza lo straccio di un ideale («In nome ehm di Dio e ehm della Madonna», urla il templare in scena brandendo la spada), la citazione della barzellettistica Padania (all’indomani delle celebrazioni tricolori).

La forza evocativa della parola è il fondamento dello spettacolo di Vacis. Tutto è affidato alla capacità immaginativa dello spettatore, un po’ come avviene per il lettore del poema. Quello del regista torinese è un teatro povero, poverissimo, che poco o nulla concede all’occhio di chi guarda. Esemplare in questo senso la scena ideata da Roberto Tarasco. Il palcoscenico è nudo. Solo una sedia, stagliata sul fondale nero. In mezzo, calato dall’alto, un drappo bianco simulante una vela (nave), che il naufrago Binasco ammaina o inalbera, sfrutta come quinta o indossa come mantello. Lo stesso drappo si fa all’occorrenza schermo per sporadiche videoproiezioni inserite in soccorso dell’immaginazione dello spettatore: la croce rosso fuoco emblema dei templari, i volti infantili che rimandano a quella leggendaria “crociata dei fanciulli” evocata nell’incipit. Così la musica. Dalla marcia turca di Mozart al pop contemporaneo fino ai suggestivi jingles orientaleggianti, gli innesti musicali hanno la funzione di commento didascalico alla parola. Un po’ come quando si evocano i cavalli, e si odono nitriti; si invoca il Patriarca di Gerusalemme, e fluttuano litanie. Sino al momento clou dello spettacolo. 


Binasco durante il suo monologo

Poi le luci si abbassano, scende a mezz’aria una luna dorata. Il virtuoso Saladino chiede al saggio Nathan quale delle tre religioni monoteiste sia quella vera, e l’ebreo risponde con la parabola dei tre anelli, che Lessing deriva da Boccaccio. Una lezione raffinata sul rifiuto del dogmatismo, in previsione di una civile integrazione tra i popoli. La parabola è ripresa da Vacis quasi testualmente. Del resto, in palcoscenico, l’intero poema di Nathan rivive integralmente, nella propria sostanza filosofica più che nella forma. Col rischio forse di qualche scelta discutibile (d’accordo per i recenti anatemi papali contro il relativismo etico, ma, in un’epoca che ha conosciuto l’11 settembre, riesce davvero difficile accettare la netta contrapposizione ideologica tra il fondamentalismo del capo della cristianità e la modernità illuminata di quello islamico).

Dalla parabola delle tre monete Vacis trae le conclusioni finali. In fondo, ci dice, conta di più la ricerca della verità che la verità stessa. O, se preferiamo, parafrasando Elsa Morante, il movimento «dell’arabesco indecifrabile» è più importante della «soluzione del suo teorema». Dopotutto, è noto, quello di Lessing è un inno al relativismo, che fa rima con pluralismo; un tributo alla bellezza della diversità. Visione utopica, certo. Però meditarla vale la pena comunque. 

   

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La locandina
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
   
  

Valerio Binasco con mantello e croce dei Templari




 
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