«Niente caramelle e coppie abbracciate». È con questo annuncio che Pippo Delbono introduce La menzogna, anticipando il clima di una messinscena difficilmente ascrivibile ad un genere preciso dove teatro, musica, danza e mimo danno vita a uno “studio” che ancora una volta colpisce ragione e sentimento.
La menzogna si ispira al fatale incendio scoppiato la notte fra il 5 e il 6 dicembre 2007 nella linea torinese della ThyssenKrupp, che costò la vita a sette operai. Una tragedia atroce al pari di un altro fatto di cronaca avvenuto pochi giorni dopo a Milano: due negozianti, padre e figlio, uccisero un africano per aver rubato un pacco di biscotti. Questo il prologo annunciato dalla voce fuori scena di Delbono. Prologo che diventa denuncia politica e sociale, che riflette sullipocrisia assurta a regola di vita e sullimpossibilità di sentire sulla propria pelle le disgrazie altrui. È lartista stesso a dichiararlo nella prima battuta: «Scusate, non riesco a provare dolore per le morti sconosciute». Levento di cronaca, che attraversa come un filo rosso lintera performance, funge da sottotesto, o meglio da pretesto, per riflettere sul dolore e sulla difficoltà di viverlo nel profondo.
Pippo Delbono
Ancora una volta arte e vita, in quanto vissuto, si rincorrono in questopera di Delbono. Portatore di una biografia travagliata, lartista ligure concepisce la compagnia teatrale come un microcosmo che si oppone alla società esterna. Nella sua compagnia-famiglia cè limmancabile Bobò, sordomuto e analfabeta, che ormai necessita del bastone per camminare; Gianluca Ballarè, il tenero ragazzo down portatore di un soffio di leggerezza; Nelson Lariccia, lex barbone che nonostante l'addomesticamento civile guarda come un «lupo nostalgico alla foresta»; Gustavo la trans dal gran cuore pulsante; Antonella la spogliarellista. Gli attori non recitano nessun personaggio, sono loro stessi che, calati in un determinato contesto, lottano contro la menzogna che sta dentro e fuori di noi.
Lo spettacolo si apre allinsegna di una cifra naturalistica che sarebbe piaciuto a Zola e Antoine. In un silenzio profondo e desolante, rotto di tanto in tanto dai lontani latrati dei cani, si reiterano i gesti abituali degli operai, scanditi da una lentezza capace di dare vita ad una sorta di ritualità. Davanti a una fila di armadietti, ritagliati da una luce livida, un uomo si spoglia e veste la tuta da lavoro, poi una donna ancora, infine un terzo operaio ripercorre in bici il disadorno spazio scenico: è questa la “tranche de vie” sonnolenta e spenta delle migliaia di operai che di notte si recano al lavoro. Ecco allora che sul fondale-video si assiste al discorso di Padre Zanotelli che denuncia lo scandalo di un monopolio mondiale della ricchezza spartita tra pochi, e subito dopo le immagini patinate dello spot pubblicitario della ThyssenKrupp, immagini agghiaccianti se si pensa a chi è stato tragicamente escluso dal “futuro” auspicato dal filmato. “ThyssenKrupp”, il marchio inciso sullacciaio degli imponenti grattacieli e sui palazzi di vetro è anche lo squallore degli alienanti spazi di lavoro.
Pippo Delbono e Nelson Lariccia
Ad un primo quadro caratterizzato dal silenzio fa da contrappunto la complessa scena successiva che svela il resto della scenografia. Unalta struttura centrale composta da scale, scivoli, piattaforme e una grata metallica sulla sinistra definiscono il plumbeo spazio scenico del Fabbricone di Prato. Ed ecco che ci troviamo ricondotti nel mezzo delle immagini surreali che si affollano nella mente del regista: Gianluca ricoperto di lunghi fili di perle, ‘conigliette in attillati abiti di pelle nera, eleganti maîtresses in compagnia di preti ammiccanti, uomini in smoking, mostruosi esseri dagli occhi bendati e con ciondolanti orecchie dasino di shakespeariana memoria. Queste figure si muovono sulle note di vecchie canzoni tedesche e francesi degli anni Trenta, danzano un tango, assistono senza passione allo spogliarello di una ragazza, abbaiano come cani alla luna, trasformano gli armadietti industriali in reclusori confessionali. Lo spazio spoglio del Fabbricone si trasforma allimprovviso in unarena di azioni ambigue, diventa teatro di follia con una Giulietta che, dalla cima di un balcone-ponteggio, invoca in un crescendo emotivo il suo straziante appello di rinunciare al nome («che importa se Capuleti o Montecchi»). Cè ancora lurlo, non più tragicamente muto come nella precedente omonima opera di Delbono (Urlo, 2004), ma qui grottesco e sgradevole. È labbaiare ringhioso di uomini-cane in smoking, è lurlo rabbioso degli impeccabili ecclesiastici. Esplodono musiche dai pieni orchestrali di Michael Galasso al Sacre di Stravinskij, in unatmosfera che ricorda Eyes Wide Shut di Stanley Kubrick. Tra queste immagini si agita un Delbono kantoriano, narratore e orchestratore della mise en scène, ma anche Delbono performer, un Mackie Messer in divisa da padrino che disturba in continuazione attori e spettatori con flash della macchina fotografica.
Maestro dell'esaltazione dei contrasti, lartista ligure accosta a queste torbide atmosfere le apparizioni leggere di Gianluca che corre nudo e leggero come un gatto e quelle di Bobò che stringe le mani agli spettatori. È il Delbono buddista, se si vuole, che illuminando la sala a giorno invita il pubblico a una breve pausa, stemperando la tensione creata precedentemente. Conclude lintermezzo Nelson Lariccia, basco rosso e zaino in spalla, che, in veste di artista di strada, porta in giro una natura morta incellofanata, esibendosi in una breve e ironica lezione di storia dell'arte.
Un momento dello spettacolo
Nel finale legocentrico e violento protagonista-narratore della Menzogna si denuda, con la fragilità e insieme la potenza che potrebbe avere un bambino catapultato improvvisamente sulla scena. È un percorso al contrario, quello di Delbono, che parte dal sociale per arrivare nel privato, nelle più profonde cavità del suo essere: «per capire la menzogna sarà forse necessario, come nel viaggio dantesco, vedere prima la menzogna che sta fuori, per arrivare poi col tempo, dopo tanti studi, a vedere la menzogna più vera, quella che ci portiamo dentro». Un viaggio personale, eppure prepotentemente simbolico. E se la dedica finale «a mio padre» rivela molto e forse troppo, attraverso la cruda rivelazione del corpo emerge la consapevolezza di una più profonda pietas.
Infine è ancora Bobò a portare ordine, col suo fanciullesco volto segnato dai troppi anni passati in manicomio: accarezza gli armadietti, li apre, si specchia dentro, sussulta e invita Delbono a rivestirsi. Il piccolo Bobò in frac conclude una messa in scena che assottiglia la linea tra il privato e luniversale e che, come l'antica catarsi, mira alla lucidità interiore e a risvegliare responsabilità collettive.
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