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Serpenti in carriera

di Fabiana Campanella
  18000 giorni Il pitone
Data di pubblicazione su web 08/03/2011  

Andrea Bajani, Giuseppe Battiston, Gianmaria Testa e Alfonso Santagata sono un poker d’assi per un successo teatrale. Il primo è autore giovane e brillante: ha afflitto di risate e d’angoscia tutti i lettori di “Cordiali saluti” (2005) e “Mi spezzo ma non m’impiego” (2006), romanzi capofila della cosiddetta “letteratura precaria”, per poi spendersi come editorialista sulle pagine del Domenicale del Sole 24 ore in una fallimentare ma simpatica crociata contro Facebook, e come coautore teatrale di Marco Paolini (I miserabili, 2009). Battiston è l’antieroe del nostro tempo, adorato dalla critica e dal pubblico: pingue friulano dal piglio semplice ma di natura intellettuale, incettatore di premi di cinema e di teatro, annovera tra gli ultimi successi la commovente interpretazione di un Cristo nella recita di Pasqua nel film La passione di Carlo Mazzacurati, con Silvio Orlando (2010), e i premi UBI ed ETI per Orson Welles'Roast, monologo in accappatoio e sigaro sulla vita del genio americano. Gianmaria Testa è uno di quei musicisti che solo a nominarlo ti senti un eletto: schivo e lontano dai compromessi commerciali di radio e tv, si muove tra i festival internazionali di jazz e le collaborazioni eccellenti, da Paolo Fresu a Enrico Rava, alla fratellanza artistica con lo scrittore Erri De Luca. Poi lo senti cantare e dimentichi tutto il resto. Santagata, infine, è uno di quei lupi da teatro che ha attraversato già qualche generazione (laddove le generazioni durano non più di dieci anni): col cappello a falda larga e lo sguardo furbo del pugliese, già attore con Dario Fo e Carlo Cecchi, fonda nel 1979 la compagnia Katzenmacher, con cui affronta la storia del teatro da Molière a Pinter, passando per Eduardo e Petito.

Il tema è in gran voga: la perdita del lavoro, delle certezze, degli affetti, della dignità umana, la solitudine. Corollario tematico: la ferocia dei giovani concorrenti, per cui tra un cinquantenne (i 18.000 giorni del titolo) e un silente aitante collega che si insinua lentamente nel suo ufficio fino a divorarlo (il Pitone del sottotitolo), chi ha la meglio è il secondo, anche se il primo ha rinunciato ad andare al funerale del padre per inseguire gli slanci carrieristici del capo.

 
 



 

Eppure lo spettacolo si perde tra le altissime aspettative e le iterazioni malinconiche del testo, che schiaccia il protagonista, rimasto solo a risistemare cumuli di vestiti senza armadi, nel vuoto di un appartamento con quattro luci e un citofono, che trilla solo per le pubblicità in cassetta.

Si dirà che la bravura carismatica di un attore come Giuseppe Battiston riempie la scena di voce tormentata e roca, che lo ha costretto altrove ad annullare alcune repliche per motivi di salute. Si dirà che l’astuzia del regista è riuscita a generare un dialogo tra i due protagonisti, l’uomo perduto e il suo angelo custode, uno scambio pregnante e affettuoso che va ben al di là della forma “teatro di narrazione” con cantastorie a latere. Gianmaria Testa da solo, offuscato tra le nebbie rosse nel bel disegno luci di Andrea Violato, avrebbe retto con successo un concerto intero, con la sua voce struggente e gli accordi di chitarra puntuali, ad ogni inciampo dell’anima. Ma davvero si può ridurre il vuoto esistenziale di un uomo di cinquant’anni che perde il lavoro all’accumulo disordinato e nevrotico di ricordi e indumenti di questo personaggio? L’inquietudine irrisolta dell’uomo lasciato dalla moglie col beffardo messaggio “Buona vita” nulla racconta della disperazione, di un’attesa in apnea, della confusione dei ripensamenti, del blocco fisico e mentale di chiunque - e sono moltissimi - si sia trovato in una simile situazione. Come una Winnie di Giorni felici Battiston monta sul mucchio di vestiti con la sua camicia rossa da rivoluzionario fallito e ricorda il passato con rassegnata incomprensione, “come se fossi morto”. “Quando riesci a non sentire più niente sei salvo”: e seppellisce i suoi mucchi di ricordi con lenzuola bianche. Forse da un cast siffatto ci si aspettava una lezione/reazione più incisiva, più dirompente. Ma gli applausi, calorosi e meritati, tributati agli interpreti, sono il segno più vero di una solidarietà agli operai sui tetti, ai cassa integrati, alle vittime della contemporaneità.


18000 giorni
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