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Il mare dei soldati e delle spose

di Roberto Giardina
  Francesco Lojacono, Paesaggio
Data di pubblicazione su web 21/02/2011  

Pubblichiamo uno stralcio dal romanzo di Roberto Giardina, “Il mare dei soldati e delle spose” edito da Bompiani, 2010, pp.45-51. In queste pagine la rievocazione di uno spettacolo popolare e paradossale.

 

Lo scorse nel pomeriggio inoltrato un pescatore venuto a ritirare le sue nasse, e da lontano pensò che fosse il cadavere di un naufrago. Il suo primo pensiero fu di lasciarlo lì, per non rovinare la festa, se era morto non gli sarebbe importato di restare un giorno in più dove si trovava. Ma doveva tirarlo più a secco a evitare che la marea lo risucchiasse al largo. Da vicino risultò troppo rosso per essere un cadavere.

 

Riportarono il pianista in paese, nudo e avvolto in un lenzuolo sostenuto a braccia da quattro uomini. Il minimo contatto con i vestiti gli procurava dolori atroci. Al primo sguardo, il dottore temè per la sua vita. Il torinese era ustionato in tutto il corpo, la pelle iniziava a spaccarsi sul volto e sul petto. Le sagge donne del paese lo stesero sul letto, e lo cosparsero con bianco d’uovo a cui avevano mischiato il succo di erbe rinfrescanti pestate in un mortaio. La pelle arsa parve risucchiare l’albume.

 

“Non vi morirà in casa, Don Emanuele,” avvertì il dottore “ma escludo che possa suonare domani per la sua festa.”

 

“Non è la mia festa, è la festa di tutto il paese, ” si incupì Don Emanuele.

 

“È indispensabile il pianoforte? Conosco un paio di pescatori che non se la cavano male con la chitarra, e uno dei palombari greci suona la tromba.”

 

Don Emanuele per un istante si lasciò tentare…il Lago dei Cigni in adattamento per chitarra e tromba. Ma i palombari non sapevano leggere la musica. E poi, lasciare accompagnare i cantanti dalla chitarra, o dalla fisarmonica… chitarre e mandolini li sentono tutti i giorni dell’anno i suoi pescatori. Solo il pianoforte avrebbe dato alla festa un carattere eccezionale.

 

“Mia figlia.”

 

“Rosa?”

 

Don Emanuele si offese per il tono del dottore.

“Suona meglio di quello sconsiderato.”

 

“È una bambina.”

 

“E allora?”

 

Il medico stava per spiegare quell’allora. Si trattenne appena in tempo. Se il padre non si rendeva conto quanto fosse disdicevole far esibire la propria figlia in pubblico, tra artisti poco raccomandabili, non poteva manifestare le sue esitazioni senza offendere il padrone dell’isola.

 

“Parlatene con vostra moglie Don Emanuele,” si raccomandò.

 

“Prima ne parlo con Rosa, non voglio obbligarla se non se la sente.”

 

La trovò che si esercitava al biliardo e attese che finisse la sua partita solitaria. Era troppo piccola per giungere comodamente al bordo, stava in piedi su uno sgabellino, ricoperto a sua volta in velluto verde, che trascinava intorno al tavolo, nella posizione più opportuna per il colpo. Il padre seguì l’ultima palla scarlatta scomparire in buca, e le disse: “Tu sola puoi salvare me e la festa.”

 

“Suonerò,” rispose semplicemente Rosa, che per la verità, avrebbe ceduto malvolentieri il suo piano all’uomo che si era cotto al sole.

 

“Sai leggere la musica?”

 

“Papà,” si risentì la ragazza.

 

“Il Lago dei Cigni?”

 

“Procurami lo spartito.”

 

Le esitazioni del dottore, sciocchezze incommensurabili, pensò Don Emanuele, ma seguì il consiglio del medico e si consultò con la moglie.

 

“Non ci vedo niente di male se la bambina non si spaventa,” decretò la madre. Ma Rosa aveva paura solo che il suo piano finisse in acqua.

 

Da grande Rosa si chiese perché il padre le avesse comprato un piano a coda. Desiderava un semplice piano, e lui aveva voluto il migliore, un purosangue in confronto al bolso cavallo del collegio. Aveva sempre trovato irragionevole la scelta del padre. Le sarebbe bastato uno strumento normale, un casalingo piano verticale, una spinetta, un clavicembalo, un piano giocattolo.

 

Lo Steinway, come il pianista, fu avvolto in lenzuola di lino, affinché il sole non ne danneggiasse il legno, e raggiunse l’isola galleggiante.

 

Dalla spiaggia della Guitcia e dal porto le lance andarono e tornarono per portare le famiglie e le sedie, durante l’intero pomeriggio. Nessun particolare fu trascurato, anche se si ricordarono per ultimo del più prosaico. Due vascelli, relegati alle estremità opposte dell’isola galleggiante, vennero adibiti a gabinetti, uno per le donne e uno per gli uomini.

 

Tutte le barche erano in movimento nel porto, le famiglie in attesa si salutavano, si mettevano d’accordo per prendere posto sullo stesso schifazzo, rivelavano che cosa le donne avevano preparato per cena, si promettevano prove e scambi delle rispettive specialità.

 

Era un dovere invitare i vicini per la festa della Madonna. Tutti si conoscevano sull’isola, tutti erano parenti o quasi, tutti erano a turno ospitanti e ospiti. Per quanto le donne avessero cercato di sfogare la fantasia ai fornelli, la tradizione imponeva piatti obbligatori, che richiedevano ore, giorni di laboriosi maneggi, di esorcismi. Si finì per mangiare le stesse pietanze, di qua e di là, per tre o quattro volte.

 

La pasta al forno, seguita dallo sfincione, che aveva l’aspetto di una grossa spugna, galleggiante in una teglia colma d’olio, ricoperto a strati di cipolla, salame, sardelle, olive, peperoni e calamari ripieni, dalle melanzane farcite di formaggio.

 

In mattinata, senza musica e senza canti, per il lutto del sovrano, si recarono in processione alla grotta della Madonna di Porto Salvo, fuori paese, là dove secondo la leggenda si era rifugiato un eremita. A scansare guai, cambiava fede a seconda di chi sbarcava nell’isola. Cristiano con i cristiani, fedele di Maometto con i pirati saraceni. Un santo buono per ogni Dio. Era lui, riteneva Don Filippo, il patrono più appropriato per i suoi parrocchiani.

 

Gli artisti scelti da Don Emanuele non trascorsero una serata tranquilla. Non tanto per il palcoscenico galleggiante su cui furono costretti a esibirsi, ma per la particolare consuetudine degli spettatori isolani.

 

Assistevano allo spettacolo, ridevano, emettevano suoni di sorpresa o di delusione, sospiri di spavento, ma nessuno aveva mai loro insegnato a battere le mani, per entusiasmo o per cortesia. Cantanti e altri artisti, dapprima sbigottiti, si lasciavano prendere dal panico innanzi a quel pubblico primitivo, che avevano creduto di conquistare senza fatica.

 

“Non è il caso che io spieghi ai paesani le buone abitudini?” si preoccupò il parroco, “o che voi avvertiate sventurati, di che cosa li attende?”

 

Il silenzio dei suoi ospiti, che tali considerava gli isolani, e la paura crescente degli artisti, divertivano Don Emanuele. “Perchè mai?” ribattè “si comportano come gli spettatori negli antichi teatri di Grecia e di Sicilia. Nessuno applaude voi Don Filippo al termine della messa, e ad Atene o a Siracusa probabilmente non ritenevano acconcio applaudire assistendo al sacrificio di Edipo.”

 

Per suonare in pubblico la bambina si volle vestire di nero, e Donna Elvira adattò per la figlia una delle sue vecchie toilette, sfoggiata una lontana sera a Palermo. Rosa avanzò sulle tavole oscillanti e si mise al piano.

 

Nel buio del porto non scorgeva la gente. Solo le lampade sui vascelli e le barche che formavano linee rotonde e molli sempre più strette, per finire a lei. Le posero una lampada ad acetilene sul piano perché potesse leggere lo spartito, e le note di Ciajkoski si intrisero di salmastro, e di carburo.

 

Antonio prese posto tra la madre e il padre sul vascello di Don Emanuele, il più antico e il più alto, che dominava il palcoscenico tra due velieri meno imponenti. Alla luce debole del lume, risaltavano il candore dei tasti e delle mani di Rosa. E i nastri che le serravano le trecce.

 

Antonio ignorava la musica, e non era in grado di riconoscere la qualità di un’esecuzione, ma si accorse della pianista. La musica costringeva al silenzio i marinai e i pescatori di spugne, che mai avrebbero visto un cigno nella loro vita, sgorgava dalla donna che l’isola gli avrebbe destinato. Antonio lo comprese, benché non avesse alcuna ragione per comprendere. E fu invaso dalla tristezza.

 

Il suono del pianoforte raggiunse il pianista torinese, nudo e paonazzo tra lenzuola di lino che profumavano di chiara d’uovo e di erbe. Pensava alla sua donna, una cantante, che lo stava tradendo in una stazione termale austriaca dalle parti di Trieste. Le avevano imposto un altro accompagnatore, non perché fosse più bravo, gli aveva spiegato la compagna poco fedele, ma perché era meno irredentista di lui. Gli austriaci avevano schedato il suo nome.

 

Abbandonato in un letto estraneo nel lembo più remoto d’Italia, nell’ascoltare melodie che conosceva fino alla nausea, il pianista si consolava con l’idea di venir tradito a causa del suo amore per la patria.

 

I lampedusani si godettero le arie d’opera, che la brezza notturna sospingeva verso il cuore dell’isola. Seguirono sbigottiti le evoluzioni del cigno morente, dalle gambe tornite fasciate di seta bianca rilucente sotto le lampare.

 

La ballerina ansimante, timorosa di spingersi al limite del palcoscenico che risuonava vuoto e inquietante sotto i suoi balzi, avvertì salire a lei dalle barche disposte in cerchio un desiderio caldo. Il cigno morì, lei cadde sulle tavole che puzzavano di pesce essiccato, e provò un brivido intimo, fu l’unica a non accorgersi dei mancati applausi.

 

La musica russa, melanconica e calda, mise a tutti voglia di mangiare, benché non potessero avere di nuovo fame. Invitarono gli artisti tra di loro sulle barche, costringendoli ad assaggiare frittelle di miele, buccellati gravidi di noci e fichi secchi, mandorle tostate, accompagnate dal passito locale.

 

Giunse il turno del puparo Frittita di Palermo, e dovette affrontare una questione drammatica. Non si era mai esibito per un pubblico disposto in tondo. Prevedeva di allestire lo spettacolo sulla piazza d’un paese, e si ritrovò coinvolto in questa follia. Rinunciò alle quinte, e a manovrare i pupi dall’alto.

 

Sistemò i paladini e i saraceni, Carlo Magno e Orlando, Rolando e Gano di Maganza il traditore, sul

ponte del veliero, in ordine d’entrata nella storia. Lui e i familiari, invece di muoverli con i fili e le bacchette, si strinsero i pupi addosso e si scagliarono nella mischia, uniti alle loro creature come mai erano stati, gridarono le battute perché li udissero fin sui vascelli più lontani, scambiandosi colpi con gli spadoni e le lance. Paladini e saraceni cadevano in battaglia, abbandonati sulle tavole, e il maestro e i suoi aiutanti afferravano subito un altro pupo e tornavano nella mischia. Eccitati, confusi, combatterono e morirono a fianco di Orlando a Roncisvalle. Cristiani e infedeli marionette e pupari mischiati in un unico covone di cadaveri, armi e corazze, grondando sangue di rosso taffettà svolazzante.

 

Non applaudirono gli isolani ma parteciparono allo spettacolo con incoraggiamenti e imprecazioni. Si commossero e piansero per quei loro morti di legno. Fecero sogni agitati, e non solo i bambini. All’alba, li attendeva una visione straordinaria.

 








 
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