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Dialogo della natura e di un tailandese

di Francesca Valeriani
  Lo zio Boonmee che si ricorda le vite precedenti
Data di pubblicazione su web 07/02/2011  

Lontano dalla sensibilità e dalla cultura occidentale, Lo zio Boonmee che si ricorda le vite precedenti è un film destinato a spaccare il pubblico in due parti: coloro che gridano al capolavoro, e quelli che lo giudicano noioso, inconcludente, farraginoso e perfino ridicolo. Chi scrive confessa di schierarsi a fianco della prima categoria.

Apichatpong Weerasethakul, cineasta, produttore, videoartista e fotografo, nato e cresciuto nello splendido territorio dell’Isaan, una regione della Thailandia settentrionale, realizza un’opera misteriosa ma non ermetica, affascinante dal punto di vista visivo e pregnante dal punto di vista concettuale. Nonostante il regista abbia compiuto i propri studi cinematografici negli Stati Uniti, più in particolare a Chicago, in tutti i suoi lavori manifesta un forte e indissolubile legame con il proprio paese d’origine. L’amore nei confronti della propria nazione rappresenta il filo conduttore delle sue eterogenee esperienze artistiche. Lo zio Boonmee che si ricorda le vite precedenti fa parte di un più ampio e complesso progetto, intitolato Primitive, che comprende numerose videoinstallazioni, due cortometraggi e un libro, realizzati con lo scopo di raccontare alle nuove generazioni il dramma vissuto dagli abitanti del villaggio di Nabua, distrutto dall’esercito nazionale perché considerato un covo di ribelli. A questa ambiziosa finalità si aggiungono altre due esigenze: far conoscere al grande pubblico una storia di reincarnazione diffusa da un tempio buddista della Thailandia settentrionale e mostrare la bellezza del paesaggio naturale che circonda Nabua, situato al confine con il Laos.

 


 

La trama può essere riassunta in pochissime frasi: Boonmee, gravemente ammalato d’insufficienza renale, si ritira nella sua tenuta agricola in compagnia della cognata, di un nipote e di un infermiere. Prima di andare incontro alla morte, lo zio Boonmee riesce a parlare con lo spirito della moglie e con il figlio creduto scomparso, diventato nel frattempo una misteriosa e inquietante creatura costretta a nascondersi nella foresta. In realtà, vi è molto di più, se si considera che, secondo il credo buddista, ogni morte dà origine a una nuova vita, sia questa umana, animale o vegetale. La pellicola, infatti, può essere suddivisa in sei differenti episodi, ognuno di venti minuti circa, legati l’uno con l’altro dal flusso ininterrotto caratteristico del processo di reincarnazione. Gli animali, le piante e gli esseri umani che abitano il film sono dunque le possibili reincarnazioni passate e future del protagonista. Questo ciclo dà vita a un incessante dialogo tra l’uomo e la natura, basato su un rispetto e uno scambio reciproci. Il rapporto che intercorre tra i due diversi elementi risulta del tutto paritario: l’essere umano non domina la natura, ma si con-fonde con essa. La giungla ripresa da Weerasethakul è allo stesso tempo un luogo di rinascita e di perdita d’identità: lo straordinario episodio che vede come protagonisti una principessa e un pesce gatto esprime proprio questa fusione. Il regista riesce a unire riflessioni mistiche con atmosfere fiabesche, rappresentando un paesaggio incontaminato, carico di fascino e sensualità. La foresta attrae i protagonisti del film, tanto quanto lo spettatore, grazie alle suggestive presenze animali e vegetali chiamate a esaltare il loro aspetto più selvaggio, istintivo e incontrollabile. Perfino lo spirito della moglie si fa presenza corporea, carnale, capace non solo di parlare ma anche di agire. Il potere suggestivo di certe immagini tende a sottolineare il carattere ancestrale del paesaggio: la maggior parte delle riprese, molte delle quali notturne, sono realizzate in esterni. L’assenza della musica permette allo spettatore di concentrarsi sui suoni naturali, come lo stormire delle foglie nelle bellissime distese di tamarindi, lo scorrere dell’acqua, il soffiare del vento all’interno della grotta. A differenza dei suoi connazionali che stanno ricorrendo sempre più al digitale, Weerasethakul preferisce girare in 16 mm, compiendo così una scelta che diventa il segno di un consapevole e necessario ritorno alle origini, in accordo con lo spirito del già citato Primitive Project. Il regista thailandese utilizza uno stile asciutto, basato su lunghe e fisse inquadrature frontali, rifiutando ogni tipo d’effetto speciale, anche nella rappresentazione dell’uomo scimmia. Per dar vita a questa misteriosa figura, Weerasethakul si ispira alle creature rappresentate negli horror thailandesi a basso costo prodotte negli anni Ottanta, che lo stesso regista ha avuto occasione di vedere e apprezzare da ragazzo. Gli uomini scimmia che abitano la giungla raffigurano in chiave metaforica gli abitanti di Nabua, costretti a ripararsi e nascondersi perché emarginati e braccati come bestie maligne.

 


Nonostante il dialogo tra la natura e l’uomo rimanga preponderante, il regista riesce a far emergere anche un rilevante sottotesto politico, individuabile soprattutto nella sequenza di scatti fotografici inserita all’interno della narrazione. Questi inserti fanno riferimento al colpo di stato avvenuto nel 2006 ai danni del Primo Ministro Thaksin Shinawatra e ai disordini politici, sociali ed economici che ancor oggi pesano sulla nazione. In passato l’interesse di Weerasethakul nei confronti di certi tempi ha causato alla sua produzione artistica notevoli problemi censori; tuttavia, dopo la vittoria allo scorso Festival di Cannes, il cineasta è stato accolto con entusiasmo dai suoi connazionali, in particolar modo dal governo. La contraddizione di questa reazione ci ricorda quanto potere eversivo possa avere ancora oggi un’opera d’arte. Grazie a Weerasethakul lo spettatore occidentale è in grado di compiere un’inedita esperienza percettiva e spirituale, certamente difficile da dimenticare.

 

 

Lo zio Boonmee che si ricorda le vite precedenti
cast cast & credits
 






 
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