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Un Bell’occhio teatrale

di Gianluca Stefani
  Pier Giorgio Bellocchio e Ambra Angiolini
Data di pubblicazione su web 03/02/2011  

Per la riduzione teatrale del suo folgorante esordio alla regia cinematografica, Marco Bellocchio si affida a Marco Bellocchio, nel tentativo non facile di espropriare il film dai pugni sessantottini che furono e di riportarlo sui binari di una riflessione attualizzante su temi quali la famiglia, la follia, la menzogna, la morte. «Trasferire in parole ciò che nel film era prettamente immagine», linguaggio cinematografico in liturgia drammaturgica: una scommessa coraggiosa, e, diciamolo subito, una scommessa vinta. Vinta senza particolari meriti, senza strafare.

 

Bellocchio non vuol correre rischi e mette in campo una formazione per far risultato. Il fidato produttore Roberto Toni. La collega Stefania de Santis, già collaboratrice del regista piacentino come casting director e con alle spalle importanti esperienze teatrali a fianco di Carmelo Bene e Luca Ronconi. Il figlio Pier Giorgio per il ruolo più delicato, quello dello psicopatico Ale, già appannaggio dello splendido Lou Castel. Infine Ambra Angiolini, apparentemente un azzardo, in realtà mossa ben studiata per garantire quell’appeal mediatico funzionale al buon successo dello spettacolo. Del resto, l’ex ragazzina di Non è la Rai si è ormai affrancata dall’età acerba, operando negli anni scelte intelligenti in bilico tra cinema e televisione, fino ad approdare, appunto, al teatro.  

 

Per l’allestimento scenico l’accoppiata Bellocchio-de Santis si affida all’ottimo Daniele Spisa, il quale opta per l’unità di luogo, necessità-virtù di una scelta coerente, in fin dei conti ovvia. Tutto in un interno: l’interno cupo e malato della casa di campagna della famiglia borghese messa in scena, qui rappresentato nella sua ossatura (la struttura dei piani, le pareti divisorie trasparenti, le tendine scorrevoli, le soglie più metaforiche che reali). Un esoscheletro asettico, straniante, che esteriorizza il mal di vivere di chi quella casa abita; una sorta di organismo labirintico, emblematico del groviglio dei rapporti (a)sentimentali dei famigliari, fatto di confini interiori, di invisibili membrane diaframmatiche che sembrano non esserci e invece ci sono e separano (Antonioni docet). Il mondo esterno invece, che nel film si poneva in speculare dualismo con la casa, è solo accennato, solo un riflesso: vive nelle sagome degli alberi in ombra sul fondale bianco, opalescenti segnali di un mondo iperuranico, lontano; rivive nei racconti dei personaggi, che come nella tragedia greca evocano con la parola il fuoriscena.

 


Pier Giorgio Bellocchio (Ale) e Ambra Angiolini (Giulia)

 

Così l’uccisione della madre da parte di Ale non si vede ma è rivelata in una abbacinante e bellissima epifania, segnata dal cambio di luce e dall’esplosione della musica di Ennio Morricone, con il figlio ritardato Leone che attraversa a corsa tutta la scena portandosi appresso la voliera dei canarini, oggetto-simbolo della madre stessa. Il ruolo “forte” di Leone (Giovanni Calcagno) è un valore aggiunto rispetto al film, nel quale lo spazio occupato da quel personaggio appariva più defilato, in fondo più innocuo. Inchiodato alla malattia, vittima più degli altri dell’oppressione materna, Leone urla a squarciagola la sua rabbia sconfinata, che tracima in bestemmia al culmine di ore di religione troppo a lungo sopportate. Una rabbia invano sedata dalla madre, la vecchia madre cieca (Giulia Weber), che non vede o finge di non vedere la realtà («Che cos’hai?», domanda a Ale. «Sono infelice». «Vuoi una caramella?») e che richiama ipocritamente i figli a una quotidianità normalizzante («Avete sparecchiato?»), scandita dai pranzi e dalle visite al cimitero.

 


Un momento dello spettacolo

 

Se dunque in palcoscenico il Leone di Giovanni Calcagno acquista spessore, fisico e drammatico, gli altri personaggi restano pressoché identici all’originale. Fabrizio Rongione non aggiunge nulla all’Augusto sicuro e cinico già di Marino Masé, unico tramite tra il microcosmo famigliare malato e il mondo fuori, figlio-padre dei fratelli-figli che sgrida e mette in castigo. Il diabolico Alessandro di Pier Giorgio Bellocchio non può più avvalersi della potenza del primo piano cinematografico e trasferisce sul proprio corpo le ferite del suo male interiore, alternando momenti di stasi a movimenti bruschi e schizofrenici. Infine Ambra Angiolini prende le misure a una Giulia sonnambolica, tramortita nell’inerzia, eppure pronta a bruschi risvegli ogni qual volta la realtà perfora il suo guscio ectoplasmatico. Quello che resta sono i superbi costumi Armani sfoggiati nei (pretestuosi?) cambi d’abito (vetrina anche per la griffe), l’incesto palesato tra i due fratelli (in ellissi al cinema), l’apparizione quasi spettrale di Giulia che, in piedi, in finale di tragedia, lascia morire il fratello Ale, disambiguando di fatto il finale aperto del film.

 

Rimane, soprattutto, la riflessione dell’autore-adattatore, i brucianti interrogativi che si (ci) pone, la sua critica corrosiva a istituzioni come la famiglia e la religione, mai così decrepite come in questo momento storico. I pugni di Bellocchio non restano in tasca. Colpiscono, fanno (ancora) male.



I pugni in tasca
cast cast & credits
 


Ambra Angiolini



Pier Giorgio Bellocchio




 
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