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Part I: lui, loro. Le domande

di Fabiana Campanella
  Uno foto di gruppo
Data di pubblicazione su web 13/01/2011  

Thomas Ostermeier è il più grande, 42 anni – lo dice con fierezza – tra i partecipanti al suo laboratorio alla Biennale di Venezia. È anche il più alto.

 

Cinque giorni tra Natale e Capodanno, al Teatro Piccolo Arsenale: 20 allievi selezionati dal regista stesso, tramite curriculum e invio di link a video di propri lavori. Tutti tra i 24 e i 41 anni, gli attori convocati sono per la gran parte italiani, molti di questi residenti in Francia, Germania o Belgio; e poi tre francesi, due greci, due tedeschi, un catalano, un’olandese, un’italo-cubana. Fanno parte del gruppo anche l’allieva italiana assistente alla regia (posto unico bandito insieme ai venti), e Daniel, braccio destro tecnologico, per immagini e suoni, di Ostermeier.

 

Si parla in inglese, anche se non c’è nessun nativo inglese. A volte, inavvertitamente, si switcha sul francese: Ostermeier segue la linea poliglotta con nonchalance e perfetta pronuncia, finché qualcuno gli fa notare che non capisce. La provenienza è per lo più accademica, dalla Silvio d’Amico di Roma alla Paolo Grassi di Milano, tre dalla Scuola dello Stabile di Genova. C’è anche un “reduce” dei recenti Demoni di Peter Stein, dove ricopriva il ruolo di Erkel.

 


 

Gli stranieri citano meno la formazione, piuttosto parlano degli ultimi lavori, dei progetti, delle ambizioni interdisciplinari. Se qualcuno ha pulsioni altre rispetto al lavoro dell’attore, viene invitato a portarle in questo cerchio di sedie sul palcoscenico: chi fa foto di scena, chi usa le marionette, chi i video, chi sta studiando scultura, chi guarda con interesse alla regia, sarà incoraggiato a mescolare competenze e tools.

 

L’unico criterio di equilibrio richiesto, al momento della selezione, era una parità tra Hamlets e Ophelias, uomini e donne. Si lavora sull’Amleto, «un testo ben scritto da un giovane autore chiamato Shakespeare»: aveva circa 35 anni nel 1600, ricorda il regista. Alla vigilia del 25 dicembre, tutti hanno ricevuto un’email con due scene da studiare: Amleto e il fantasma del padre (I, 5); il monologo del to be or not to be; e a seguire, Amleto con Ofelia (III, 1).

Ma prima di tutto, l’opera va presa a morsi, assalita, divelta, scandagliata con gli occhi di infinite domande. Sono tanti gli interrogativi sul testo lanciati da Ostermeier.

 

Con chi parla Amleto nei suoi monologhi? Com’è stata l’infanzia del principe di Danimarca? È l’unico figlio maschio della dinastia: perché Geltrude e Amleto padre non hanno avuto altri figli? Non era rischioso? Amleto era un bambino destinato a diventare re: è viziato? Fa sport? È addestrato alla vita militare? È un periodo di pace per il suo Paese? Tutti si aspettano tempi prosperi per la Danimarca, poiché il re ha appena fatto pace con la Norvegia di Fortebraccio. Perché suo figlio non si è ancora sposato? Forse ha un rapporto strano con la madre? Ieri il pensiero sarebbe corso a Edipo, oggi si direbbe bamboccione…

 


 

Ma non basta: Amleto amava la sua famiglia? Che rapporto aveva col padre? Lo spettro gli dirà di essere stato ucciso perché «peccatore», ma di lui Amleto parla con parole lusinghiere e affettuose. È una concezione tipicamente cattolica, quella del peccato: anche Claudio pregherà per il Paradiso, nonostante i suoi peccati, o Desdemona, altrove, sentirà il peso del suo peccato… Dove è andato all’università il principe Amleto? Che vuol dire nel XVII secolo studiare a Wittemberg? È l’avanposto degli intellettuali d’Europa, culla della riforma protestante, e allo stesso tempo una città fortemente simbolica in epoca medievale, centro di ricerca spirituale per monaci e nobili. E ancora: cosa sa Geltrude del delitto? Claudio è diventato re, rimpiazzando rapidamente il primo candidato alla successione, il trentenne principe Amleto, oltretutto sposando sua madre nel giro di pochi giorni: se foste Claudio, di chi avreste paura?

 

Abbiamo ragione di credere che Amleto e Ofelia stiano insieme: ma chi lo sa? Sicuramente Laerte, e Polonio lo sospetta, mentre Geltrude dice di sperarlo, ma quando lo scoprirà ne resterà sorpresa. In quale momento Amleto capisce che Ofelia è complice della cospirazione? Forse Amleto è misogino? E poi: qual è la situazione familiare prima della morte del padre? E dopo? Come si sente Amleto? Tradito, isolato, disgustato, arrabbiato, triste, deluso…

 

«Avete famiglie normali? – chiede il regista al gruppo – Quanti di voi hanno il padre che sta ancora con la madre, o cose del genere?»: non si capisce se scherza. Alzano la mano in molti, più della metà. «Così tanti? Non potete fare questo laboratorio!». Ostermeier incalza, mette in gioco le biografie personali: «Quanti invece hanno il padre risposato, la madre che ha lasciato il padre, o tutte le altre combinazioni?». Uno degli approcci al personaggio di Amleto sarà incentrato proprio sul senso del “tradimento”. «Ma non sono un terapista! Si tratta solo di raccontare storie…», chiosa Ostermeier.

 

E nessuno faccia riferimento alla sua ultima produzione alla Schaubühne di Berlino, l’Hamlet ricoperto di terra e fango: liquida la faccenda con un «dimenticatevelo». La potenza del testo di Shakespeare brucia con la stessa rapidità con cui è cambiata la prospettiva di Amleto, da principe erede al trono, a figliastro del Re. Lo shock cognitivo, ed emotivo, del personaggio principale è solo l’inizio.

 

 

Thomas Ostermeier a Venezia, 27-31 dicembre 2010
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