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‘The magnificent’ Battiston

di Giacomo Villa
  Giuseppe Battiston in "Orson Welles’ Roast"
Data di pubblicazione su web 15/12/2010  

Esiste un teatro che mira a porsi come coscienza civile di una comunità, un teatro che fa del repertorio consegnato dalla tradizione un  banco di prova per continui adattamenti registico-drammaturgici, un teatro che scava negli aspetti sociali-psicologici di persone e personaggi a noi contemporanei, proponendo fatti e situazioni lontane da noi quel tanto che basta a farcele arrivare come “inventate”, verosimili ma più o meno profondamente ammantate del dolce miele della finzione. Con Orson Welles’ roast, scritto da Giuseppe Battiston insieme a Michele De Vita Conti, non assistiamo a niente di tutto ciò. Ci si dimentica che a recitare sia Battiston e siamo portati a credere che sul palcoscenico si muova, in tutta la sua pesante e a tratti inquietante camminata, proprio quel genio che fu Orson Welles. Niente di più vero. Ma come ebbe a dire il celebre attore, regista e conduttore radiofonico americano: “La gente crede a tutto” e Battiston riesce a inverare per il breve spazio dello spettacolo queste parole.


 

Quello dell’attore friulano, Premio Ubu per il Teatro 2009, è un omaggio a Welles secondo la tecnica del roast: in area anglosassone e americana, si intende un componimento celebrativo o autocelebrativo al contrario, mirante cioè a mettere in berlina alcuni aspetti della vita (vizi, aneddoti) della persona presa come oggetto dell’omaggio, arrostita appunto (e l’arrosto ci ricorda Welles-Battiston, è il modo di cottura più nobile che l’uomo conosca). In una scena scarna, con carrelli di servizio e poche luci di scena, in un buio illuminato dapprima dal rosso intermittente dell’estremità del sigaro di Welles, poi dal cangiante, dilatato e abbagliante accappatoio bianco indossato dall’attore, come in una pausa dal set cinematografico, sono narrate alcune vicende del regista americano: le prove teatrali in Irlanda,  Inghilterra e poi in America, il successo del Mercury Theatre on air all’emittente radiofonica CBS, in cui vengono proposte reinterpretazioni audio di classici e opere letterarie (famoso il caso di panico generato negli ascoltatori di tutta l’America per lo sbarco dei marziani nell’adattamento del romanzo di fantascienza La guerra dei mondi), dal lavoro preliminare di alcuni film (Citizen Kane e La signora di Shangai), fino al racconto della scelta del luogo di sepoltura delle sue ceneri: una hacienda a Ronda in Spagna.

Ma il vero fine di Welles è quello di ricordare il suo straordinario amore per il teatro (molti conoscono i suoi film, afferma, o almeno fanno finta di conoscere, ma pochi il suo teatro): l’amore per i personaggi shakespeariani, per Faust, per i palcoscenici secondari, di scarso successo, magari di periferia, per il calore del pubblico, che appaga più di ogni altra cosa il suo innato e viscerale bisogno di ‘fare spettacolo’, di mostrarsi, di recitare. Viene ricordato l’aneddoto secondo cui Welles telefonò ad un facoltoso produttore cinematografico promettendo un copione di prim’ordine per un film a patto che elargisse una discreta somma di denaro. I soldi in verità servivano per riscattare i vestiti di scena rimasti bloccati ad una dogana per Around the world, l’adattamento teatrale musicale  de Il giro del mondo in ottanta giorni. La promessa fu poi mantenuta e nacque La Signora di Shangai (1948).


 

Il materiale su cui ha lavorato Battiston è costituito da preziose interviste di Welles e documenti fotografici; ma il vero materiale è il corpo dell’attore. E in questo, niente di più vero. Sarà per la tanto citata e reale somiglianza dell’attore friulano col regista americano, a partire dalla mole fisica, ma non solo: la studiata inarcatura delle sopracciglia, la voce, roca, profonda, con un accento americano che a volte va e a volte viene, le pose, pinguamente statuarie, i gesti, lenti, soppesati e profondamente evocativi di una persona che, arrivata sulla scena, imbandisce da subito una improvvisata tavola per uno spuntino, dialoga con una bottiglia di whiskey e amoreggia per tutto il tempo con l’inseparabile sigaro, accendendolo più volte, dilatando i tempi della narrazione su quelli degli oggetti che in fondo caratterizzarono la vita di Welles. È il tempo del sigaro, quello rappresentato, è il tempo della melanzana che Welles-Battiston tira fuori dal cesto del pranzo e si diverte a utilizzare in modi e contesti diversi: come un bambino, per il quale non esiste cosa più seria del gioco, Battiston la trasforma nell’astronave aliena quando parla de La guerra dei mondi, in una bambolina wodoo infilzata da spiedini di legno quando si rievoca il Vodoo Macbeth, in un microfono per un improbabile comizio elettorale in un’altrettanto improbabile candidatura politica contro niente meno che McCarthy.

Un gioco, un dilaniante desiderio di mostrarsi e di mettersi in scena, di recitare, di creare un’altra realtà: questa è la chiave di lettura del Welles di Battiston, che raggiunge per questo il vero significato di teatro, la rappresentazione di sé. Come dimostra lo spettacolino di magia, vera passione dell’attore e regista americano, nel siparietto The magnificent Orson, in cui si cimenta con trucchi di magia. O come la profonda riflessione che sta dietro allo spettacolo sul concetto di comunicazione, di qualunque mezzo mediatico si tratti, di creazione di una realtà tanto vera da sembrare falsa o viceversa. Sul crinale tra finzione e verità si muove l’eccezionale Giuseppe Battiston, creatore di un Orson Welles che emoziona proprio perché istrionico e divertente attore di se stesso. Niente di più vero.

 

Orson Welles’ Roast
cast cast & credits
 


La locandina




 
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