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Mario l'arcitoscano

di Claudio Carabba
  Mario Monicelli
Data di pubblicazione su web 14/12/2010  

La prima mossa è subito sbagliata: tiro fuori dalla tasca un classico racconto-sfogo di Curzio Malaparte e domando: “Si può dire che la leggenda dei Maledetti toscani è nata con questo libro?”.

Mario Monicelli mi guarda perplesso. Il grande regista, viareggino per nascita e umore ruvido, è l’artista ideale per discutere sulla bizzarra (spesso rissosa) natura del vario popolo di Toscana, e la conversazione minaccia di prendere (per mia colpa) una piega sbagliata. Dopo un attimo di riflessione, Monicelli replica secco: “No, non si può dire. O almeno non lo dico io. Anche perché Malaparte, un fascistone da marcia su Roma, mi è sempre stato antipatico. Il fatto che,  poco prima del crollo di Mussolini, sia entrato fra le file degli oppositori (morbidi) al regime, mi pare un’aggravante. E poi era anche di Prato. Per trovare le radici della “maledizione dei toscani” bisogna risalire ai classici. A parte Dante, che se la prende più o meno con tutte le città della regione, canto dietro canto, punterei su Machiavelli, quello del primato della Politica e del Principe, del fine che giustifica ogni  mezzo, si ricorda?”.

 

 Che fa, maestro, mi prende in giro?

 

“Tranquillo, riassumevo la storia letteraria per sua comodità. Comunque anche se la prendessi in giro, sarebbe un segno di amicizia. I toscani per una battuta riuscita sono pronti a giocarsi un amore o un buon posto di lavoro, ad affossare un amico in difficoltà, a rovinarne un altro: così per gioco, senza astio, senza un vero perché”.

 

Mi scusi, ma questa faccenda della sarcastica diversità dei toscani, che non si sentono come gli altri italiani, non sarà un luogo comune?

 

“Guardi che se un luogo è comune vuol dire che è parecchio frequentato e una ragione ci sarà. Io sulle battute sentite, e tramandate come leggende metropolitane a Firenze, ci ho costruito un paio di film, i due atti di Amici miei. E non mi sono venuti nemmeno male”.

 

Francamente la storia delle zingarate, degli scherzi crudeli, persino al cimitero, e i mitici schiaffoni alla stazione ai poveri passeggeri che si affacciano al finestrino del treno… ecco, ho sempre pensato che fossero brillanti invenzioni, sue e dei suoi sceneggiatori.

 

“E si sbaglia, perché lavorammo intensamente sul tessuto dei racconti che avevano raccolto in città. Germi, che per primo pensò al film, voleva spostare l’azione a Bologna, ma le gag sono fiorentine. Oddio, la scena degli schiaffi alla stazione, non l’ho mai vista dal vivo, anche a me suona un po’ strana, perché allora i finestrini dei treni erano parecchio alti. Ma i vecchi di Oltrarno la raccontavano, giurando che era vera. La cosa sullo schermo funzionò. Mi permetta di sottolineare con un certo orgoglio che Amici miei liberalizzò la comicità toscana, la quale fino allora era considerata puro veleno al botteghino, i produttori ti sparavano a vista se proponevi commedie fiorentine. L’ondata dei “nuovi comici”, da Benigni a Pieraccioni, a suo modo è nata dalla supercazzola del conte Mascetti”.

 

A parte la saga di Amici miei, lei in realtà in Toscana ha girato pochissimo. E spesso, quando ha usato i dialetti, come ne La grande guerra, praticamente non ha sfruttato il suo vernacolo.

 

“E’ vero, anche se sono tornato nella campagna toscana per film come Peccato che sia femmina, a cui tengo molto, o Cari fottutissimi amici, che venne meno bene benché partisse da una storia molto bella e vera, le disavventure di una compagnia di boxe ambulante, organizzata dal duro Sconcerti, un mitico manager del pugilato, padre del vostro giornalista Mario fra l’altro. Comunque ha ragione, la Toscana, forse inconsciamente, ho cercato di evitarla: perché con i suoi magnifici panorami può diventare una cartolina stucchevole, una trappola. Nella campagna senese è rimasto imprigionato, con Io ballo da sola, un regista bravo come Bernardo Bertolucci. Molti stranieri hanno fatto di peggio. E lo sventurato Benigni con Pinocchio ha fatto uno scivolone spettacolare. Ma, poverino, è stato sfortunato, il libro del Collodi è meglio lasciarlo stare, ci sono cascati quasi tutti”.

 

Lei, stranamente, non ha mai girato nella sua Viareggio. Non ha mai avuto la tentazione di

raccontare la sua bella gioventù?

 

“Per carità, non ho mai sopportato l’autobiografia, o comunque non mi riesce farla. Non avrei mai potuto inventare  una cosa bella tipo I vitelloni sulla spiaggia della mia Versilia. Senza dimenticare che, grazie a Dio, Viareggio non è mica malinconica come Rimini, c’è vita anche d’inverno: ci sono le ragazze in pineta, la passeggiata, i carri e il Carnevale. Comunque ad essere pignoli un film viareggino lo scrissi, insieme ad altri, per il mio amico Luigi Zampa negli anni sessanta. C’erano Vittorio Gassman, Amedeo Nazzari, Sandra Milo e tanti altri: scherzi  e amori da vacanza. Si intitolava Frenesia dell’estate, fu fatto a pezzi dai critici, ma non era brutto”.

 

Lei vive da più di cinquant’anni a Roma, ma mi sembra ancora molto orgoglioso di essere viareggino.

 

“Lo può dir forte, siamo fieri della nostra razza, gente che secoli fa si metteva in mare sui barchi e se ne andava dall’altra parte del mondo. Un’eredità che non si cancella”.

 

Nelle sue parole sembra riaffiorare la rivalità che divide i vari Comuni della Toscana: città confinanti che si detestano fra di loro: per restare alla sua zona Pisa, Lucca e Livorno ad esempio.

 

“Mah, credo che un po’ di campanilismo esista in tutta Italia. Posso allargare gli orizzonti.

Le ho detto che noi viareggini grazie al mare e al viaggiare (da esploratori, non da ricchi commercianti o da poveri emigranti) ci curiamo poco degli altri, magari ci sentiamo più liberi e arditi. Di Lucca e di Livorno non ce ne importa niente. Siamo fortunati. Città più nobili come Firenze hanno avuto una sorte diversa: per un lungo periodo, dal rivoluzionario  tumulto de’ Ciompi al fiorire del Rinascimento, si sono sentiti (sono stati) al centro del mondo. Poi, fieramente chiusi per secoli nelle loro antiche mura, hanno cominciato una lenta decadenza e ora sono al punto zero”.

 

Ma come, maestro? Solo alcuni mesi fa il sindaco di Firenze in una cerimonia ufficiale in Palazzo Vecchio, non senza suono di trombe e chiarine, le ha dato la cittadinanza onoraria. Non è stato contento?

 

“Certamente, è stato un onore e una bellissima giornata. E allora mi correggo: Firenze è decaduta, perché si è addormentata pigramente nella culla secolare dell’arte, come si suol dire. Speriamo che si svegli”.

 


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