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Monicelli, il lungo addio

di Claudio Carabba
  Mario Monicelli
Data di pubblicazione su web 14/12/2010  

“Vi dispiace se ora me ne vado? Non vorrei essere scortese ma preferisco dormire nel mio letto”.

Era una sera del gennaio 2009 e Mario Monicelli aveva aperto un ciclo al Teatro del Cestello di Firenze sulla memoria del cinema, una breve serie di incontri d’autore, con dibattiti e proiezioni.

Il regista, con intelligente generosità, aveva parlato tutto il giorno con il pubblico. Alla fine, stanco, ci annunciò che se non era troppo disturbo, se ne voleva tornare subito nella sua casa, nel quartiere Monti a Roma, non aveva voglia di stare in un albergo “straniero”. Era già tardi, quasi mezzanotte, ma due giovani attori della compagnia subito si offrirono di accompagnarlo con la loro macchina.

Il giorno dopo ci raccontarono di un viaggio piacevolissimo, sull’autostrada notturna, con Monicelli che aveva parlato con vivacità per tutto il tragitto, raccontando un sacco di cose. Da quella giornata non ho più visto Mario; l’ho soltanto sentito per telefono, per accordarsi sulla presentazione dell’ultimo libro di sua moglie Chiara o per una proiezione de La grande guerra, nella copia restaurata, che non abbiamo fatto in tempo a organizzare.

 

Viareggino orgoglioso del suo mare (“i nostri antenati partirono con i loro ‘barchi’ alla conquista del Mondo”) il regista si era nel tempo legato anche alla non sempre amata Firenze, certo grazie alla travolgente esperienza del doppio Amici miei. La città lo ripagò nel 2008 con la consegna della “cittadinanza onoraria” con una bella cerimonia in Palazzo Vecchio, condotta dallo “specialista” Fabrizio Borghini. D’altra parte il “maestro” (appellativo da lui non amato) aveva una scorza da duro, ma era pronto e disponibile a riflettere non solo sul cinema, ma anche sul lavoro degli altri.

 

La morte di un artista purtroppo (e quella di Mario nella sua disperata volontarietà è stata tragica, sì da suscitare una discussione sin troppo aspra e ideologica ) è spesso l’occasione per bilanci definitivi. Nel tempo si potranno fare, senza la tentazione di un’acritica beatificazione. Si dice, non tutti i film di Monicelli sono capolavori. L’osservazione è giusta ma vale per qualsiasi autore di cinema, da Visconti a Rossellini, da De Sica a Fellini, tanto per citare nomi assai venerati. Rivedere, capire, analizzare servirà appunto a capire e valutare meglio. E sarà importante rileggere anche le memorie sparse dell’autore, un testimone del Novecento capace di riflettere sulla storia del cinema italiano, dagli anni trenta in poi. Basta un accenno ai primi ricordi della scoperta di Roma e di Cinecittà, durante il Ventennio, per accorgersi che Monicelli non era mai banalmente nostalgico, ma sempre ludico e deciso: “Nell’anteguerra muovevo i primi passi nel cinema, facevo il ciacchista o il terzo assistente. Ricordo Amedeo Nazzari, che era molto alla mano, molto buono, e pure essendo un divo data la popolarità di cui godeva, non posava affatto a divo… Conobbi Doris Duranti, davvero bellissima, che, amica di Pavolini, non ci marciava affatto e anzi, in un certo senso, prendeva in giro la propria posizione di donna del gerarca. L’unica che fece dei film, senza avere in effetti, alcuna ragione per farli, dato che come donna e come attrice non valeva niente, fu Miria di San Servolo, che lavorava esclusivamente perché era la sorella di Claretta Petacci, l’amante di Mussolini”.

 

Poi, nel vitalissimo dopoguerra, comincia sua carriera da regista, prima insieme a Steno, da Al diavolo la celebrità (1949) agli scatenati comiche con Totò (su tutti, a mio avviso Totò cerca casa e Guardie e ladri) e poi gloriosamente da solo, con punte altissime e piccoli scivoloni, come capita a chi lavora con passo infaticabile. La commedia all’italiana non fu il suo limite, ma uno dei suoi motivi di orgoglio, anche politico: “A mio avviso la commedia è stata molto importante per la maturazione dell’italiano. Se non ci fosse stata, credo non si sarebbe arrivati, mettiamo, a un referendum sul divorzio, e crederemmo ancora alle Madonne che piangevano le loro lacrime proprio prima delle elezioni”. Un titolo per tutti? Magari gli studenti in lotta per l’università optano per l’epica stracciona di Brancaleone, ancora urlato nei cori di rabbia e protesta (“Branca, Branca, Branca, leon, leon, leon”). Personalmente forse avrei puntato su I compagni, vibrante affresco sulle lotte operaie nella Torino di fine Ottocento, che lo stesso Monicelli riassumeva così: “Certo, le lotte di una volta avevano motivazioni più elementari, più essenziali, ma il tema del film è che una sconfitta non può mai essere definitiva”.

 



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