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Ottima prova per il giullare triestino

di Diego Passera
  Mistero buffo
Data di pubblicazione su web 17/11/2010  

Il Mistero Buffo di Dario Fo (Ps. nell’umile versione pop) è, fin dalla scelta del titolo, un omaggio al Maestro, che diviene modello di riferimento e di inevitabile confronto; almeno per chi ha avuto la fortuna, come chi scrive, di vederlo in azione alla palazzina liberty di Milano. E poco importa se è stato attraverso un video: l’aura dell’opera d’arte rimane inalterata. Anzi, siamo convinti che dalla registrazione ne esca rafforzata la comunicazione verticale (attore-spettatore): fine ultimo dell’impresa teatrale tout-court e più che mai di quella comico-giullaresca.

 

Dario Fo in più occasioni ha riconosciuto all’allievo Paolo Rossi un talento naturale in fatto di mimo. E non è poco, per chi deve confrontarsi con il corpus gestuale del Mistero buffo (1969). Il triestino è abile mimo e affabulatore e riesce a mantenere un agilità fisico-verbale vorticosa ma ancora molto lontana dai contorsionismi ginnici di Fo. Decisione intelligente quindi quella di portare in scena una versione ispirata ma non copiata, perché si conoscono tutti i rischi dell’impresa. E poi, parole del Nobel, «rubare in teatro è cosa buona, copiare è da coglioni». E Rossi ruba ma attualizza, senza però distruggere l’impianto strutturale di base: d’altra parte il teatro è ontologicamente politico e si rivolge sempre a una ‘polis’, mostrandole i suoi problemi e le sue potenzialità (spesso sopite). È sempre stato così secondo Fo e questo complesso e stratificato spettacolo è il più riuscito meccanismo di denuncia sociale, per la sua natura di “giullarata”. Il giullare, come il fool shakespeariano, aveva una certa libertà di parola ed era piuttosto immune dalla censura: la corte non prestava molta attenzione al senso delle parole pronunciate. Significativo quindi che la modalità comunicativa peculiare del Mistero buffo sia il grammelot inventato da Fo, che Rossi utilizza con disinvoltura e massima destrezza, pur se riadattandolo all’onomatopea triestina.

 


Paolo Rossi con il manichino Goran


Il carattere malleabile del Mistero Buffo, un testo performativo in fieri e mai plasmabile in un modello definitivo (e perciò stesso non rigido), gli fa reggere il confronto con la scena dopo più di quaranta anni dalla sua prima apparizione. Il panorama politico è cambiato così come l’uditorio. Più impegnato quello di allora – le lotte politiche erano il pane quotidiano – più addormentato e cerebralmente passivo quello di oggi – inebetito dalle vetrine mediatiche di grido. Eppure questo teatro popolare (il pop del titolo è un’apocope), come anche  quello delle origini, riesce ancora a smuovere gli animi della folla e non solo delle frange più reazionarie. Il comico si sedimenta dentro lo spettatore e inibisce la catarsi. Non c’è purificazione. Non si esce dal teatro con le lacrime agli occhi, e con l’animo lavato, un po’ più felici di prima. La riflessione autonoma cresce con il passare dei giorni e con essa matura il pensiero critico liberato dalle imposizioni di una società modellatrice di menti inconsapevoli. Tale era la potenza del Mistero Buffo di Dario Fo (ma anche di tutti gli altri suoi spettacoli), che rimane inalterata in questa versione.

 

Al teatro Puccini di Firenze un formidabile Rossi apre i battenti introducendo gli spettatori nell’universo diegetico dello spettacolo con un lungo antiprologo, già utilizzato da Fo per entrare in contatto con il pubblico, rendendo quest’ultimo inconsapevole parte integrante della diegesi. Il performer soccorre quindi gli spettatori, che per la maggior parte ignorano il Mistero buffo e gli altri misteri medievali. È questo il momento in cui la satira più tagliente attacca la società contemporanea in modo diretto: Benedetto XVI e la sua rigidità fisica e dogmatica; la censura (morale) ancora operante in Italia; il problema dello sfruttamento dei lavoratori al nero; l’integrazione degli immigrati (clandestini e non)…

 


Emanuele Dell'Aquila e Paolo Rossi


I misteri rappresentati raccontano La nascita del giullare e La resurrezione di Lazzaro, che comunque si discostano molto dalla versione del Maestro. È qui che Rossi dà sfogo a tutte le sue energie, dimostrando buone doti performativo-affabulatorie, riuscendo a suscitare tante risate nel pubblico e a guadagnarsi ripetuti applausi a scena aperta. Banale dire, ma utile il farlo, che a partire dal materiale religioso offerto dal Mistero, si aprono continui squarci di riflessione dolce-amara sulla nostra società. Uno sui tutti: il riferimento alla schiavitù dei raccoglitori di pomodori di Rosarno. Ma la denuncia non è accanimento distruttivo fine a se stesso, dettato solo dalla rabbia. Essa promana al contrario dal grande amore del giullare per la sua terra e quindi diviene protesta costruttiva: Rossi accusa, ma propone soluzioni alternative per chi ha voglia di stare ad ascoltare.

 

Una Lucia Vasini in stato di grazia dimostra le sue alte potenzialità attorico-camaleontiche. Apre la seconda parte dello spettacolo con una sezione metateatrale a tre (Vasini, Rossi e Dell’Aquila) in cui gli attori in un fuori scena immaginario preparano quello che deve seguire. Dopodichè la donna si fa interprete della polifonia dialogica delle Marie sotto la croce. Nella prosodia spettacolare questo è il momento più alto, quello dell’intonazione patetica – rafforzata dal crocifisso su cui è inchiodato il manichino Goran (un extracomunitario sbarcato da poco sulle coste italiche). Esso è innalzato sul fondale e messo a forte contrasto con quello mediante un sapiente gioco di luci. Non si ride più. Il silenzio sospeso dell’uditorio accompagna l’eccezionale resa della performer, che vive il momento in modo talmente intenso da giungere alle lacrime. Il tono deve però essere nuovamente bilanciato, perché sempre di un mistero buffo si tratta. E la conclusione stempera molto i toni, con l’esecuzione surreale ed esilarante di Ho visto un re da parte di due buffi clown: Rossi e Emanuele Dell’Aquila.

 


Lucia Vasini e Paolo Rossi


Quest’ultimo è sempre in scena e suona dal vivo le musiche da lui stesso composte. La musica e il canto, tratti peculiari del teatro popolare, non rimangono però soltanto esornazione ma ascendono al ruolo di codici scenici autonomi e instaurano con tutti gli altri un rapporto paratattico. In alcuni casi, poi, assurgono a vera e propria drammaturgia sonora e canora, privilegiato strumento comunicativo che solo riesce a dare sfogo ai sentimenti più difficili da esporre intorno alla trattazione dei problemi più delicati. Questo è uno dei tratti che più si ammirano nel mistero buffo di Rossi. Ci si riferisce a temi come la pedofilia, i soprusi sui più deboli, le gaffe imperdonabili del capo del governo e molto altro riuscendo a mantenere una leggerezza di fondo grazie a un sorriso non più sgangherato ma pacato e riflessivo.

 

 

Il mistero buffo di Dario Fo (Ps. nell’umile versione pop)
cast cast & credits
 


La locandina




 
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