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Bratislava e la Venezia dei dogi

di Paolo Patrizi
  Jolana Fogašová e Rafael Alvarez (foto di Jozeph Marcinsky)
Data di pubblicazione su web 28/10/2010  

L’intensa vita musicale di Bratislava – che da qualche anno può contare su un nuovo e più grande teatro d’opera affacciato sul Danubio, lasciando allo storico teatro nella Città Vecchia una programmazione residuale – ha un rapporto privilegiato con la prima metà del nostro Ottocento: nel giro di poche settimane è possibile assistere a Puritani, Nabucco e Due Foscari. Proprio di questi ultimi la recensione dà conto: uno spettacolo dignitoso, senza punte di eccellenza, che proprio per la sua medietas lascia comprendere lo standard abituale d’un teatro assai meglio di quanto avverrebbe con il “grande evento” che, per sua natura, fa storia a sé. È uno standard, diciamolo subito, superiore al nostro attuale prodotto medio: se non altro per un’orchestra compattissima, con un timbro brunito ben riconoscibile almeno per quanto riguarda gli archi, e un coro di perfetto appiombo, con una dizione italiana esemplare per scolpitura e nitidezza.

 


Rafael Alvarez (foto di Jozeph Marcinsky)

 

I cast alternano cantanti locali – una sorta di compagnia stabile – ai guest singer: e c’è da domandarsi se il gioco, almeno nei Due Foscari, valesse la candela, visto che i due artisti ospiti (il tenore Rafael Alvarez e il baritono Miguelangelo Cavalcanti, peraltro anch’essi del tutto estranei allo star-system) apparivano meno soddisfacenti del soprano e del basso slovacchi che completavano il quartetto degli interpreti principali. Per il resto, una recita a Bratislava può rappresentare, per il melomane italiano, un piacevole salto all’indietro di alcuni decenni. Ciò che si vede, e anche le reazioni del pubblico, sembrano riportarci non oltre gli anni Settanta: scene e costumi tradizionali, recitazione di cantanti al proscenio e “con il cuore in mano”, applausi a scena aperta non solo alla fine d’ogni brano, ma anche al termine delle singole sezioni. Un amarcord salutare, tutto sommato.

 

La regia di Marián Chudovský, per quanto tradizionalissima nella sostanza (siamo proprio nella Venezia del Quattrocento, senza attualizzazioni né diacronismi), è sembrata forse azzardata a una parte del pubblico slovacco, che alla “prima” ha riservato qualche piccola disapprovazione a taluni affondi espressionistici, come i mimi-fantasmi nella scena del carcere. Di fatto, si tratta d’una di quelle regie cui non interessa – in controtendenza rispetto a quanto accade con i registi della vicinissima Vienna – creare una propria drammaturgia, parallela a quella della pièce di Byron e del libretto di Piave, e che neppure si prefigge di raccontare quella drammaturgia stessa. Semmai, più che raccontarla, la chiarisce: con elementi scenici insieme simbolici e concreti (un trono che cala dall’alto, un leone non alato come quello di San Marco ma che comunque rimanda alla Serenissima e, simultaneamente, all’indomabilità leonina del vecchio doge) ed escamotage calligrafici ma funzionali (il Preludio, in cui Verdi espone paratatticamente i temi musicali che connotano i protagonisti, viene visualizzato facendo apparire, di volta in volta, i personaggi in questione).

 


Scena 1 (foto di Jozeph Marcinsky)

 

I numerosissimi cambi di scena – uno dei motivi, probabilmente, per cui I due Foscari non sono mai entrati in repertorio – vengono risolti con abilità: un unico stilizzato impianto scenografico, più il ricorso a proiezioni per evocare i diversi ambienti. L’uso dei mimi, poi, è tutt’altro che peregrino: i «mille e mille spettri» che popolano la mente di Jacopo Foscari nel quadro della prigione prendono corpo in palcoscenico collocando lo spettatore non in un’ottica esterna, ma nel punto di vista del personaggio. Solo il fantasma di Carmagnola che «il reciso suo teschio ferocemente colla manca porta» non ci è dato vedere, lasciando che lì sia la musica ad evocare l’allucinazione; mentre il carnevale veneziano è anch’esso visionario: non un gioioso vociare fuori scena che – con uno di quei geniali contrasti cari alla drammaturgia verdiana – contrappunta l’angoscia del prigioniero, ma una lugubre pantomima a vista sul piano superiore del palcoscenico.

 


Miguelangelo Cavalcanti (foto di Jozeph Marcinsky)

 

Friedrich Haider dirige con mestiere, sicurezza e rimarchevole capacità di rendere percepibili i richiami al Verdi che verrà (il Dies Irae del Requiem, il duetto del Ballo in maschera…). È un mestiere, però, non abbastanza abile da impedire al tenore di andare fuori tempo nel primo atto, né da evitare un certo sparpagliamento vocale nel terzetto: Rafael Alvarez è un elemento bisognoso di maggior disciplina musicale (anche perché certe riprese di fiato compromettono la precisione ritmica), e sarebbe un peccato se una voce così pregevole – che sarebbe ancor più bella con un’emissione tale da non forzare gli acuti – rimanesse schiacciata dai propri limiti tecnici. Tanto più che la personalità non difetta, e nella scena del carcere ascoltiamo un artista molto compenetrato. Più corretto, ma anche con naturalia vocali più modesti, il baritono brasiliano Cavalcanti: gradevole finché c’è da cantare piano nel registro medio, ma altrimenti in debito di pastosità e rotondità.

 

La primadonna, comunque, surclassa i due uomini: Jolana Fogašová è una star locale per ora esclusa dai grandi circuiti, ma che meriterebbe visibilità internazionale. Voce ricca di metallo, con centri sontuosi (ha in repertorio pure qualche ruolo mezzosopranile), forse un po’ a disagio finché si tratta di galleggiare nei pianissimi della cavatina del primo atto, ma con il colore, il volume, il peso e l’accento – pronuncia e dizione, invece, sono criptiche – del soprano drammatico di agilità che Lucrezia Contarini deve essere. Assai più avanti nella carriera, il basso Ján Galla è a sua volta un elemento di spicco e una colonna dell’Opera Slovacca, che conferisce rilievo coprotagonistico a un personaggio defilato come Jacopo Loredano, facendone il vero motore dell’azione e – con una voce tuttora scura e tonante – l’anima nera della vicenda. Pure i ruoli di fianco hanno un trattamento di riguardo, come accade nei teatri con compagnie stabili che scompaginano i confini tra protagonisti e comprimari: Jozef Kundlák, tenore di qualche notorietà anche in Italia, nella seconda compagnia affronta Jacopo, ma qui si ritaglia la particina di Barbarigo; Michaela Šebastová è una Pisana straordinariamente partecipe, magari a prezzo di qualche eccesso di sottolineatura, ai drammi della sua amica Lucrezia.

 


Jolana Fogašová (foto di Jozeph Marcinsky)

 

Pubblico motivato e, si direbbe, in confidenza con il primo Verdi. Chissà se gli slovacchi – che sembrano interessarsi all’Italia più dei loro vicini di casa austriaci – hanno colto la nemesi storica racchiusa in quest’opera: qui un doge che fa tacere i propri affetti familiari in nome del rispetto della legge, oggi un Presidente del Consiglio che ha varato una fabbrica di leggi ad personam.

 

 

Due Foscari



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