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L’importanza delle parole

di Paolo Patrizi
 
Data di pubblicazione su web 28/10/2010  

Cos’è più importante: l’aggettivo o il sostantivo? Il festival s’intitola Luigi Cherubini e i primi romantici e a basarsi su quest’ultima parola, intesa quale aggettivo sostantivato senza attributi né specificazioni, non tutto quadrerebbe, nella Lodoïska in forma di concerto approdata a Venezia e poi a Roma (la recensione dà conto della prima serata). L’autore di Medea, infatti, qui appare un po’ raggelato e trattenuto da un’esecuzione sensibile più allo stile cortese e galante che a quei fremiti istintivi e passionali, nati in opposizione al razionalismo illuminista, con cui, in letteratura come in musica, siamo abituati a identificare lo statuto estetico del romanticismo. Se però puntiamo l’attenzione sulla parola “primi”, appare chiaro il senso storico-stilistico dell’esecuzione (il protoromanticismo non come movimento di rottura, ma ponte tra la civiltà musicale settecentesca e il nuovo che avanza) e, con essa, il suo valore di operazione culturale. Ne siamo debitori al Palazzetto Bru Zane e Centre de musique romantique française – uno spicchio di Francia a Venezia, a pochi minuti dal Ponte degli Scalzi – che dallo scorso anno dà vita a un festival tra Parigi e la Serenissima, dedicato al romanticismo musicale francese in tutte le sue possibili declinazioni, che affianca all’esecuzione di opere e concerti anche ricerca musicologica e attività editoriale. 

Quest’anno dunque l’angolazione del festival è quella di Cherubini, fiorentino di natali ma parigino d’adozione, anche per celebrarne il duecentocinquantenario dalla nascita ignorato, con poche eccezioni, dai teatri italiani. Si sa d’altronde (lo insegnano pure la storia della letteratura e del cinema) come i francesi amino esaltare quegli italiani che ritengono di avere scoperto; e non c’è dubbio che il severo Cherubini, tendente a una concisione drammatica e a un prosciugamento del virtuosismo canoro più vicini alla coeva opera d’oltralpe che al melodramma italiano di quegli anni, trovasse il proprio pubblico di elezione in terra di Francia meglio che a Napoli o Milano. La sua indole antinapoleonica, d’altronde, mostrano la natura di romantico “antico”, corroborando l’angolazione impressa dal festival. Non è quindi un caso che il suo massimo prestigio parigino arrivò negli anni della restaurazione: quando peraltro la vena creativa, inesausta per tutto il decennio conclusivo del diciottesimo secolo (Lodoïska è del 1791), iniziava a prosciugarsi.

 

La lettura del direttore Jérémie Rhorer è dunque tutta protesa a sottolineare i debiti di Cherubini con il teatro musicale di Haydn, riducendo i volumi e rendendo quanto più possibile nitidi i contorni, con l’ausilio di un’orchestra (Le Cercle de l’Harmonie, da lui fondata cinque anni fa e ormai di prestigio internazionale) precisa e spesso suggestiva, pur con gli occasionali problemi d’intonazione che pongono gli ensemble con strumenti originali. Siamo lontani dalla Lodoïska di Capuana e De Fabritiis, che diressero le prime riprese italiane di quest’opera in teatro e in concerto (Scala 1950 e Rai 1961) postdatandola a un romanticismo pieno e inequivocabile, che trovava nelle scene della battaglia e dell’incendio – un po’ smussate e come disinnescate nella concertazione di Rhorer – il proprio culmine musicale e drammaturgico; ma siamo distanti pure dalla Lodoïska di Muti, che una ventina d’anni fa, ancora alla Scala, raggiunse un aureo equilibrio tra compostezza classica e fuoco romantico. È comunque una direzione che mostra un’impeccabile convergenza tra il gesto (chiaro, rigoroso) e il suono che ne scaturisce (limpido, preciso); e che, più di farci intuire i motivi dell’ammirazione per quest’opera da parte un gigante come Beethoven, lascia capire perché fosse innamorato di Lodoïska anche un compositore sereno e poco propenso alle antitesi incisive come Mendelssohn.

 


Il direttore d'orchestra Jérémie Rhorer

 

L’esecuzione in forma di concerto sottrae qualcosa all’opera, che trova i momenti più memorabili nelle situazioni grandiosamente scenografiche o in certi umoristici coup de théâtre come lo scambio dei bicchieri, con i narcotizzatori che si ritrovano narcotizzati, che per essere gustati fino in fondo richiedono il palcoscenico. Per altri aspetti, però, Lodoïska è partitura propizia a un’esecuzione concertistica, trattandosi d’un lavoro in cui la situazione psicologica e il momento scenico trovano definizione nell’orchestra, mentre ai cantanti poco viene concesso: cantanti che, d’altronde, apparivano in linea con il ridimensionamento fonico concepito dal direttore. Dunque voci da opéra comique, più che da quel suo particolare sottogenere – la comédie héroïque – in cui Lodoïska esplicitamente rientra. Solo il baritono Pierre-Yves Pruvot, nel ruolo del vilain della situazione, mostra una vocalità robusta per colore e volume: e non è un caso che sia l’unico ad apparire (ma con una direzione meno arcaicizzante forse non lo sarebbe stato) un po’ fuori stile. Ha voce di modesto spessore invece la protagonista Nathalie Manfrino, che tenta di usare al meglio le armi del proprio strumento, piccolo ma suggestivo, aggirando i due poli su cui gravita Lodoïska – da un lato l’eroismo femminile, dall’altro una severità quasi claustrale – per giocare la carta della dolcezza angelicata. I risultati, spesso, le danno ragione: ma nei momenti più tesi e drammatici la voce perde in fermezza, e anche l’intonazione ne risente.

 

L’opera schiera poi due tenori (il raffinato amoroso e il barbaro generoso) in una dialettica che potremmo definire prerossiniana (baritenore da un lato, tenore acuto dall’altro): Sébastien Guèze dice poco, risultando anonimo nel timbro come nel fraseggio; assai più comunicativo – ma è anche il ruolo a essere tale – Philippe Do nei panni del tartaro Titzikan, svettante negli acuti ancorché non sempre a fuoco nell’intero arco della sua emissione. Chi si ritaglia il maggior successo, tuttavia, è Armando Noguera: ma solo perché il personaggio del servo Varbel – furbo, goloso, poltrone e, all’occorrenza, spadaccino provetto – è così simpatico che difficilmente il pubblico non lo gratificherebbe di applausi. Di fatto, è difficile entusiasmarsi per un ruolo da basso-baritono cantato con voce vuota nei centri e, qua e là, tenoreggiante; oltre che con un fraseggio dove la comicità viene sciorinata tra mille affettazioni. Bene le parti di fianco, comprese quelle sostenute dagli elementi del coro (l’ottimo, pluripremiato ensemble da camera Les Éléments).

 

L’opera è stata solo la punta di diamante del festival, che ha previsto una fitta serie di appuntamenti cameristici, quasi tutti nella bellissima sede del Palazzetto Bru Zane (per l’impegnativa Lodoïska ci si è trasferiti alla Fenice): una ricognizione tra quei “primi romantici” – Méhul e Kreutzer, Onslow e Hérold, Spohr e lo stesso Schubert – evocati dal titolo della rassegna e ai quali, in qualche modo, spettò di “inventare” la musica dell’Ottocento. Tra questi il fiorentino-parigino Luigi Cherubini resta una delle figure di massimo spicco.

 

 



Lodoïska
Comédie héroique in tre atti


cast cast & credits
 
trama trama



 
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