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Un annoiato dandy di primo Ottocento

di Gabriella Gori
  Onegin
Data di pubblicazione su web 25/10/2010  

Onegin di John Cranko, ispirato all’omonimo “romanzo in versi” di Aleksandr Puškin, fa parte di quella importante collana di balletti narrativi che hanno arricchito la letteratura coreutica del secondo Novecento e rappresentato un temibile quanto affascinante banco di prova per danzatori e danzatrici che si reputino degli interpreti. Logico dunque che un artista del calibro di Roberto Bolle, giunto all’apice della carriera nella messinscena di balletti del repertorio ottocentesco, voglia cimentarsi in ruoli più ‘moderni’ in cui mostrare le sue potenzialità drammatiche e crescere come ‘attore’ di danza.

 



In effetti la riduzione coreografica del romanzo di Puškin, creata da Cranko su musica di Čajkovskij per il Balletto di Stoccarda nel 1965, necessita della presenza di un vero ‘attore’ di danza, che sappia portare sulla scena un annoiato dandy della società pietroburghese di primo Ottocento e la renda credibile tramite un’arte afasica ma,  paradossalmente, in grado di comunicare forse e ancora di più delle stesse parole.

Il balletto, presentato al Teatro della Scala di Milano, ruota intorno a Onegin, un “giovin signore” insoddisfatto, inquieto, attanagliato dalla noia e dall’albagia. Tutto comincia nel giardino della casa della vedova Larin dove le figlie Tat’jana e Ol’ga si divertono con delle amiche, quando arrivano il poeta Lenskij e l’amico Onegin in visita da Pietroburgo. L’eroe maledetto, bello e dannato, colpisce subito la fantasia e il cuore della timida e romantica figlia maggiore dei Larin, Tat’jana, mentre Ol’ga, più allegra e volitiva, flirta con Lenskij. L’azione si sposta nella camera di Tat’jana dove la ragazza scrive una lettera d’amore a Onegin e poi, specchiandosi, sogna il volto dell’amato che le rivela di corrispondere il suo sentimento.

 



Anche il secondo atto si apre nella dimora dei Larin, dove Tat’jana festeggia il suo compleanno e aspetta da Onegin una riposta alla missiva. Il giovane però in modo sprezzante straccia davanti a lei la lettera e per divertirsi corteggia Ol’ga, suscitando le ire di Lenskij che lo sfida a duello. Evgenij sarebbe pronto ad una riappacificazione ma il rifiuto categorico di Lenskij, sordo anche alle preghiere di Tat’jana e Ol’ga, porta alla catastrofe. Onegin lo uccide con un colpo di pistola.

Passano dieci anni e il terzo atto si apre sulle sontuose e aristocratiche sale del palazzo del principe Gremin, marito di Tat’jana. La donna, pallido ricordo dell’ingenua e disprezzata provinciale, è ora una gran dama, elegante e sofisticata, protagonista del ballo di casa Gremin. Appare Onegin, un uomo distrutto nel fisico e nell’animo che, vedendo Tat’jana, si accende di passione e cerca in ogni modo di comunicare con lei. Le manda una lettera e Tat’jana pur riluttante accetta di riceverlo.

Nel drammatico incontro Tat’jana confessa di amarlo ancora ma, nello stesso tempo, proclama la sua fedeltà al marito stracciando la missiva di Onegin che, disperato, comprende ora, ma troppo tardi, il suo errore.

Storia semplice, il balletto, come il romanzo, ha il suo punto di forza nell’intreccio di passioni di Tat’jana e Onegin, accentuate dal confronto con quelle dei co-protagonisti Ol’ga e Lenskij, in una continua giustapposizione di sentimenti ed emozioni tradotti da precisi ‘segni’ coreografici come le  scene corali, gli assoli e i passi a due.

 


 

In questa applaudita messinscena, resa ancora più accattivante dalle imponenti e ariose scenografie di Pier Luigi Samaritani, i bei costumi di Samaritani e Roberta Guidi Di Bagno e la musica di Čajkovskij, eseguita dall’Orchestra della Scala ben diretta da  Ermanno Florio, il Corpo di Ballo non delude nel rendere l’atmosfera allegra e spensierata del valzer in casa Larin per il compleanno di Tat’jana e in quella seriosa e affettata della polonaise a Palazzo Gremin. Proiezione la prima dell’ingenuità di Tat’jana e la seconda del controllo emotivo di una donna oramai padrona del proprio destino.

Anche gli assoli, nerbo della poetica di Cranko, diventano un inequivocabile ‘segno’ per dipingere il carattere di Onegin nel primo atto, quando impone la sua presenza con tutta una serie di legati e pose accademiche che esprimono la sua lacerazione interiore.

Lo stesso Lenskij, il poeta idealista che romanticamente sceglie la morte come affermazione di sé, ha il suo assolo e il bravo Antonino Sutera ne accentua il virtuosismo per mettere in luce la distanza da Onegin, che balla più raso terra per il peso che grava sulla sua anima, e la gioia del suo legame con Ol’ga. Una Daniela Cavalleri deliziosa, vivace eppure disperata nell’inutile tentativo di dissuadere l’amato dal tragico duello.

‘Segno’ inconfondibile di questo ‘romanzo coreografico’ di Cranko è però il pas de deux che sottolinea l’inizio e la fine dell’infelice amore di Tat’jana e Onegin.

Maria Eichwald del Balletto di Stoccarda, memore di straordinarie interpreti come Marcia Haydée, Carla Fracci, Alessandra Ferri, sa evocare le illusioni di Tat’jana fanciulla, quando immagina Onegin tra eleganti volteggi, acrobatiche prese e eterei lifts, e la consapevolezza di Tat’jana donna, quando da vera eroina romantica con una danza austera e imperiosa soffoca i suoi sentimenti e dice addio alla felicità.

Roberto Bolle, che debutta nel ruolo di Onegin alla Scala, pur nella generosità e dedizione con cui affronta il ruolo, di cui si ricordano le magistrali interpretazioni di Richard Cragun, Rex Harrington, Massimiliano Guerra, Manuel Legris, non mostra a pieno la caratura drammatica necessaria in quanto resta troppo olimpico, troppo classico.

In questo Onegin ‘bolliano’ l’olimpicità, visibile fin dalla prima entrata dell’artista in tutta la sua apollinea bellezza, soverchia la ‘romanticità’ e la costringe in atteggiamenti e gesti più di maniera che sentiti, almeno fino al terzo atto quando Roberto riesce ad essere più Onegin e meno Bolle e a regalarci una chiusa convincente e drammaticamente romantica. Chiusa che fa ben sperare per il futuro ‘attoriale’ di Bolle  che sembra aver solo bisogno di ricordare la lezione di Lee Strasberg. Il celebre direttore dell’ Actors Studio di New York che, rielaborando il metodo Stanislavskij, insegnava un training dell’attore su se stesso più che sulla costruzione del personaggio.

  




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