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Intervista a Patrizia Zappa Mulas.
La Vita e la Forma


di Giulia Tellini
  Patrizia Zappa Mulas (foto di Maria Mulas, titolo "Patti e Taramà", 1999)
Data di pubblicazione su web 24/09/2010  

Roma, 27 febbraio 2010. Ballerina per formazione, scrittrice per passione e attrice per professione, già Ofelia per Carlo Cecchi, Elettra per Nanni Garella, Ermengarda per Federico Tiezzi e Medea per Giancarlo Cauteruccio, nel suo luminoso e policromatico open space sulla cima del Gianicolo, affettuosamente assediata da Teo e dal suo festoso scodinzolare, Patrizia Zappa Mulas ci parla della sua passione e della sua professione. Scrivere e recitare. Ci parla degli unici due spazi - la pagina e la scena - in cui ha la possibilità di raccontare storie e perciò di dare una forma alla vita.

Può parlare dei suoi studi e della sua formazione?
Mi sono laureata in Estetica a Milano con Dino Formaggio. La mia è stata l’ultima tesi della sua docenza. Una tesi su Michael Bachtin, il filosofo russo che dedicò un famoso saggio a Dostoevskij. In realtà, era una tesi sulla teoria del romanzo. 

Questi sono i miei titoli di studio, ma la mia formazione riguarda altre cose. Sono nata in una famiglia di artisti. Mio zio è stato un grande fotografo, Ugo Mulas. E fotografi sono i suoi fratelli, tra cui mia madre. Sono nata in una casa dove c’era una camera oscura. Il soggiorno era una sala posa. Sono cresciuta fra pellicole, acidi, taglierine: insomma in una bottega d’arte. Dove ho conosciuto molti artisti, i pittori e gli scrittori che frequentavano mio zio, e mia madre. Milano, negli anni Settanta, era ancora uno straordinario centro culturale. La nostra casa era sempre aperta, le nostre cene sempre affollate di discussioni vigorose. Ho imparato molte cose così, come si apprende la lingua materna. È stata quella la mia formazione - nel gusto del vivere, nella sapienza dei giudizi, nello spirito dissacrante di quegli uomini e donne liberi – soprattutto nella vitalità. 

Per questo, credo, sono sempre stata attratta dalle botteghe d’arte. Il teatro è una delle ultime rimaste. Oggi gli artisti - scrittori, pittori - sono soprattutto manager di se stessi, imprenditori solitari. Il teatro è ancora un mestiere artigianale: il regista è il capomastro, poi ci sono gli apprendisti, si imparano le tecniche concrete.  E non circola troppo denaro - anche questo è servito a conservare un barlume di libertà.

A dieci anni mi sono presentata all’esame di selezione della Scuola di danza della Scala, l’ho passata e per tre anni ho fatto il soldatino della danza classica. Ho anche debuttato alla Scala, nello Schiaccianoci di Rudolf Nurejev: nella parte della bambina nella danza di Natale e del topo. Pur essendo stata promossa, alla fine del corso mi sono ritirata. Avevo capito che non avrei potuto vivere per sempre usando solo i muscoli e le articolazioni. La danza era meravigliosa ma avevo bisogno delle parole. Dalla Scala si esce solo bocciati, non di propria iniziativa. Hanno dovuto inventare una procedura apposta per il mio ritiro, perché non esisteva (ride). Ho cominciato fin da piccola a creare sconcerto. Mi sono iscritta al liceo classico. In quegli anni ho fatto politica. Erano appunto gli anni Settanta. E anche questo ha formato una visione del mondo.

Infine ho sempre amato scrivere: in realtà amavo disperatamente leggere. Quel poco di tempo che mi rimaneva libero da quella vita faticosissima alla Scala (sei giorni la settimana, dieci mesi l’anno, vietato ammalarsi), lo passavo a leggere. Avevo due centri: uno la muscolatura, l’altro la mente.

Così, finito il liceo, mi sono iscritta alla Scuola del Piccolo Teatro: desideravo fare il cinema, si andava al cinema, non a teatro, quando ero ragazza. Ma non volevo lasciare Milano e andare al Centro di Cinematografia di Roma. Non ero pronta a staccarmi dalle mie radici. Dopo pochi mesi, Massimo Castri è venuto a incontrare noi studenti. Seguivo  il corso di assistente alla regia, non di recitazione (non pensavo di fare l’attrice, allora). Massimo Castri mi ha offerto di fare la sua assistente a Brescia. Il CTB era appena stato fondato, era ancora nella fase eroica, Castri aveva appena debuttato in Vestire gli ignudi (1977) segnalandosi come regista nella scena nazionale.

Quando ha debuttato come attrice?
Nell'Edipo di Seneca, diretto da Castri, nel giugno del 1978. L’idea di Massimo era che ci fosse un Edipo bambino che recitava la maledizione di Edipo come se fosse una lezione di latino da imparare a memoria. Non si metteva in scena la versione greca di Sofocle, l'Edipo re, ma quella latina di Seneca. Un testo più sanguinoso, più letterario e anche più nevrotico: la tragedia di Edipo è un’ossessione culturale più che un evento sacro. Massimo mi chiese di leggere in prova la parte del bambino , che sarebbe arrivato solo gli ultimi giorni. Alla fine ho debuttato come Edipo adolescente. Ed è cominciata così la mia carriera.  

In quella bottega, ho compreso che il teatro è un mestiere totale, e un attore deve essere un po’ anche regista, costumista, tecnico luci. Se in scena salta un riflettore, devo sapere come andare a prendere la luce da un altro - devo quindi sapere come funziona un riflettore. Anche nel momento di massima concentrazione resta sempre una parte distaccata che controlla il gioco.   

Il primo anno quindi ha lavorato con Castri...
Ho fatto parte della scuderia del CTB, che era molto pregiata. Era un Teatro Stabile appena nato, aveva un grande direttore, Renato Borsoni, che scopriva giovani artisti e investiva su di loro. Poi ci furono problemi politici ed economici, nel 1982 la compagnia si sciolse, e io fui scritturata da Carlo Cecchi che quell’anno doveva mettere in scena Ivanov di Čechov a Spoleto, al Festival dei due Mondi. E mi prese per la parte di Sasha. Con lui feci un’esperienza molto diversa. Con Castri avevo imparato cos’è il teatro di regia, lui era come un direttore d’orchestra. Carlo Cecchi veniva da tutt’altra tradizione, quella di Eduardo e del teatro napoletano (pur essendo fiorentino). Il capocomico in scena recita, è un attore, fa il protagonista. Con Cecchi ho scoperto com’è sorprendente recitare e ho imparato le tecniche dell’improvvisazione.

Nel frattempo mi ero resa conto di non essere una regista, mi mancava una cosa fondamentale: il piacere di assumere il comando di una ciurma, di fare il comandante. Sentivo che gli attori si aspettavano da me comportamenti materni o autoritari che non avevo nessuna voglia di assumere. Finché non ci si mette alla prova non possiamo sapere chi siamo, quali sono le nostre possibilità. È questo il grande lavoro della giovinezza, trovare se stessi.

Ho rinunciato a fare il regista e ho continuato a fare l’attrice. Quel mestiere mi permetteva di lavorare su grandi opere letterarie per mesi, di impararle, non solo di studiarle ma di abitarle. Avevo capito che volevo scrivere. Una tournée dopo l’altra mi sono laureata e, subito dopo, ho smesso di leggere saggi universitari e sono tornata ai grandi romanzi che avevo letto da ragazzina senza capirli veramente. Impercettibilmente, scrivere è diventato parte integrante del mio essere attrice.

Ci sono tanti modi di essere attori: ci sono tanti modi quanti sono gli attori. Ognuno ha il suo. Per me è di fondamentale importanza il rapporto con le parole, con la trama, con la narrazione. Con il fatto di raccontare una storia. Recitando Molière, Pirandello, Eschilo, Goldoni, Shakespeare, entro in mondi pieni di vita. E scrivo. Per questo non ho fatto cinema neanche come attrice. Nel cinema, l’attore è soprattutto un oggetto. Deve anche recitare ma le parole sono pochissime e raramente interessanti. Ho fatto un film solo e non mi sono mai annoiata tanto in vita mia. La sera ero depressa.

Quale film?
Viva gli sposi di Gianluca Re, tratto da un racconto di Marco Lodoli. Era il 1987. Nel 1979 avevo registrato una bella cosa per la Rai a Napoli: la messa in scena di un racconto di Stevenson, Il diavolo nella bottiglia, con la regia di Thomas Sherman. Lì non mi sono annoiata. In quel caso, però, c’era Stevenson (ride). Col passare del tempo, ho dato sempre più importanza al racconto. Quando affronto un personaggio, cerco sempre di allargare il mio campo visivo. Il problema che mi pongo non è cosa fare in scena, ma come dare vita a questo mondo sepolto nelle battute, come trasmetterlo al pubblico, come arricchirlo, come valorizzare quelle parole.

Verso la fine degli anni Novanta, ho scritto un monologo tratto da sette romanzi di Colette che ho messo in scena al Teatro Stabile dell’Umbria nel 2000. Nello stesso periodo, ho esordito con due romanzi brevi, o due racconti lunghi, forse due novel, non saprei come definirli. Poi ho tradotto un testo americano di Israel Horovitz e un poema di Alfred Tennyson che Richard Strauss ha trasformato in un melologo. E intanto recitavo.

Per Giancarlo Cauteruccio, ho curato la riduzione della Lunga notte di Medea di Corrado Alvaro. Lo spettacolo [Medea e la luna] era uno studio prodotto dalla regione Calabria per i siti archeologici, nel 2005. Eravamo convinti di replicarlo solo sette volte, e sono quattro anni che lo riprendiamo. Medea è stata un’esperienza importante come interprete. Non voglio assolutamente sottovalutare l’importanza della regia di Giancarlo, che è straordinaria, con la musica dal vivo e la sua concezione barocca del teatro. Ma sono convinta che la fortuna di questo spettacolo dipende anche dal fatto che la riduzione drammaturgica funziona. Riduzione alla lettera, per ridurre i costi della messa in scena. Non avevamo abbastanza attori. A volte la scarsezza è una risorsa, costringe all’essenziale. C’è una battuta folgorante di re Egeo che dice: «il mondo sta diventando troppo grande e più si aprono le vie del mondo, più la gente si chiude. Più grande la terra e più limitata è la gente). Ma avevo tagliato re Egeo e l’ho passata a re Creonte.

Quali sono i registi con cui ha preferito lavorare? Cosa le hanno insegnato?
Come ti ho detto, Castri mi ha insegnato che cos’è il teatro di regia, e Cecchi mi ha insegnato cos’è il teatro d’arte. Castri sceglie un testo classico e vi sovrappone una sua lettura: fa un’operazione di riscrittura, di montaggio drammaturgico (che adesso non fa più). In questo modo, ha portato Pirandello e Goldoni nel teatro contemporaneo. Carlo Cecchi invece sceglie un copione classico e cerca il suo spirito corrosivo, non aggiunge e non toglie, non sovrappone una sua lettura. Non riscrive il testo, lo legge: e lo mette in azione con una compagnia di attori. Sono forme di teatro diverse. Ho lavorato molto volentieri con Mario Missiroli. Con lui ho fatto solo Il pellicano di Strindberg (a Torino, nel 1999, nell’ultimo anno del gruppo della Rocca) ma siamo rimasti molto amici.

Ho lavorato molto con Nanni Garella. Siamo stati come compagni di scuola che debuttano insieme: nell’Elettra, Nanni ha esordito con successo nella regia e sono seguiti diversi altri spettacoli a Brescia, a Bologna. Nanni era della scuola di Castri, era il suo regista assistente. È un’intellettuale a tutto tondo: un regista intellettuale e poeta. Si confronta con i testi in modo lirico e personale. Anche lui, come Cecchi, a volte recita ma non è un vero capocomico. È stato molto importante nella mia vita, siamo cresciuti insieme, ci siamo dati una mano.

Un altro incontro importante è stato quello con Luca Coppola, che è stato ucciso molto giovane, nel 1988, a Mazara del Vallo. Ho debuttato con lui l’anno prima, nel 1987 con un atto unico di Marguerite Yourcenar il cui teatro in Italia era allora sconosciuto. Con lui sono stata quella Pia dei Tolomei a Montalcino ed  Elettra in radio. Luca era un grande traduttore. Giovanissimo, ha tradotto il teatro della Yourcenar, che ancora viva ha molto apprezzato la sua versione italiana. La morte di Luca è stata una grande perdita, era un genio e avrebbe fatto molto per il teatro italiano. Devo dire che è stato un bell’incontro anche quello con Giuseppe Marini con cui, negli ultimi anni, ho interpretato Le serve di Jean Genet, insieme ad Annamaria Guarnieri e a Franca Valeri. Anche quello con Franca è stato un incontro nutriente e vivificante. 

Fondamentale sono stati poi i due grandi traduttori di Shakespeare, Agostino Lombardo e Cesare Garboli. Con Lombardo feci La Tempesta di Strehler. Lo conobbi allora e, dopo l’Amleto con Cecchi (ero Ofelia), mi invitò a Ferrara a tenere una lezione su quel personaggio. Grazie al suo input, ho scritto un saggio (La maschera di Ofelia) che è stato prima pubblicato su «Hystrio» e poi inserito nella bibliografia di un esame di anglistica alla Sapienza. Per «Hystrio» ho scritto anche un racconto sul vecchio Turi Ferro: è la descrizione - fatta in prima persona - di uno spettacolo che lo vede protagonista. È un racconto-riflessione sul lavoro dell’attore. Anche Cesare Garboli è stato decisivo. Cesare era un grande critico, un grande traduttore e uno scrittore. Quello con lui è stato un incontro letterario tra un apprendista e un maestro. Ma ho lavorato bene anche con Federico Tiezzi (ero Ermengarda nel suo Adelchi), che era quasi un mio coetaneo.

Ci sono interpretazioni cui è particolarmente legata?
Ofelia (sto lavorando a un romanzo su questa enigmatica figura) e tutte le sue derivate, fra cui Ermengarda, che è una rilettura manzoniana e romantica di Ofelia. Come lo è la Gerda del Pellicano, che è la riscrittura strindberghiana e moralistica di Amleto (basti pensare al padre morto che aleggia come fantasma negli oggetti di casa e a quella madre puttana che se la fa con l’amante). Ho fatto insomma diverse Ofelie. Anche la Figliastra dei Sei personaggi di Pirandello è una versione novecentesca di Ofelia. Questa almeno è una mia intuizione critica, maturata in palcoscenico. Nei Sei personaggi c’è l’impronta di Amleto: il Figlio che si rivolta contro il padre e la Figliastra che è una prostituta pura (anche l’ingenua Ofelia viene trattata come una prostituta da Amleto). Nei Sei personaggi c’è soprattutto una  bambina che annega nella fontana e si chiama Rosetta (Ofelia viene spesso paragonata da Shakespeare a una rosa).  Anche Il gabbiano di Čechov è una riscrittura di Amleto: la Nina del Gabbiano, come Ofelia, nel quarto atto delira. Tutte le volte che i personaggi femminili delirano ambiguamente e muoiono innocenti c’è lo zampino di Ofelia.

Anche nelle tragedie greche?
No. Ofelia è un personaggio inedito e moderno, non è un personaggio mitico. È questa la sua bellezza. Se ci pensi, però, Pirandello indica per la Figliastra la didascalia della Vendetta. La Figliastra è insomma una Elettra. E la sorellina che annega è un’Ofelia. Pirandello conosceva Amleto a memoria. Mi hanno raccontato che, quando andava a vederlo a teatro, lo chiudevano in un palco perché non disturbasse il pubblico dato che recitava tutte le battute a voce alta.  

Qual è in poche parole il suo stile recitativo?
Sono specializzata in pazze. La pazza è un personaggio difficile. Un personaggio che esige una scomposizione interna, un’acrobazia interiore. Inoltre, cerco di usare il corpo, in scena, non solo la voce. La tradizione italiana è soprattutto vocale: ci sono grandi attori che cantano, il loro corpo è poco più di un armadio in scena (più o meno come quello di quasi tutti i cantanti lirici). Molto diversa è per esempio la tradizione anglosassone.  

Ma quello che mi ha sempre guidato - prima inconsapevolmente - è il narratore dentro di me che dice «adesso accade questo, adesso accade quest’altro». Fu Gian Maria Volontè a spiegarmi che l’attore deve essere burattino ma anche burattinaio. Accade qualcosa che senti in scena: non è solo un’esecuzione ma è un processo creativo in corso che contagia anche lo spettatore.

Un altro regista con cui ho lavorato molto volentieri, anche se poco, è Silvano Piccardi, con cui nel 1994 ho messo in scena Arsa di Giuseppe Manfridi, un monologo ermetico e difficile su una poetessa ebrea vissuta nel Cinquecento nel ghetto di Venezia che intrattiene un rapporto epistolare con un teologo poeta cattolico. Complice l’amore per la poesia, gli endecasillabi e le varie forme metriche, il cattolico tenta, invano, di farla convertire al cattolicesimo. Tutto lo spettacolo - che ricordo con molto piacere - gravita intorno al tema delle conversioni religiose forzate.  

Forse non sopporto la vita e per vivere ho bisogno di un personaggio. O di scriverlo o di interpretarlo. La mattina quando mi sveglio ho bisogno di avere un personaggio dentro il quale abitare. Nella confusione del mondo siamo sempre schiacciati e limitati. Il teatro è una cerimonia laica in cui si possono raccontare le storie più orribili e trasformarle in strumenti di illuminazione. Le stesse situazioni che si vivono nella vita in modo confuso, caotico e informe (e quindi brutto), trovano una forma e si riscattano. Fare teatro e scrivere, per me, significa dare senso alla vita; alla mia vita e anche a quella di chi legge o di chi guarda.

Quindi, fra la vita e l’arte, lei sceglie l’arte…
Senza la vita non c’è l’arte. Però senza l’arte la vita è molto brutta.  

Attrice e scrittrice: cosa si sente di più?
Scrittrice.   

Che tipo di attrice si definirebbe se potesse autoetichettarsi?
Sono stata sette volte Ermengarda che agonizza d’amore per Carlo Magno. Sono stata due volte la Madonna che si strazia ai piedi della Croce. Ho dovuto misurarmi con il comico. Sono un’attrice ballerina e sono un’attrice che scrive.

In Medea e la luna, «la Zappa Mulas gioca col proprio aspetto da "rossa malpelo" […] e crea una Medea nordica […] che sembra uscita da un quadro di Munch: sola, perseguitata da tutti e prigioniera degli eventi, le orecchie tappate per non sentire l'urlo assordante della realtà, decide di sacrificarsi completamente per amore dei figli. Attrice espressiva fino ad essere espressionistica». Cosa ne pensa di questo giudizio?
Trovi che sia espressionistica? Espressionistici non sono quegli attori che usano la caricatura? Io credo di essere un’attrice razionale.

Quando l’ho definita «espressionistica», stavo pensando alla pittura…
Beh, se il termine è mutuato dalla storia dell’arte, allora sì.

Espressionismo a parte, lei che tipo di attrice si sente?
Le etichette sono tremende. Qualcuno mi ha definito un’attrice russa. In effetti avevo dei prozii con gli occhi mongoli. E dei parenti ebrei ungheresi, ma molto lontani. Non ho avuto un’educazione ebraica, se non inconscia. In effetti, amo moltissimo la letteratura ebraica. Singer è il mio narratore preferito, lo preferisco anche a Proust. Come ho detto, ho interpretato una poetessa ebrea. Mi sento a casa quanto interpreto una scrittrice. Quindi sono un’attrice di sensibilità. Semmai un’attrice inventiva.

Più studio del testo, quindi, che non mimesi della realtà…
È nelle parole che c’è il fantasma. Il personaggio è il nucleo narrativo mitico che i greci individuarono duemilacinquecento anni fa: c’è l’eroe tragico, il tiranno, il messaggero, ecc. Una delle cose più affascinanti del lavoro dell’attore è che si esce da se stessi. Ci si libera della propria esistenza. Anche il pubblico può liberarsi di se stesso.

Più stanislavskijana o diderotiana?
La differenza fra Stanislavskij e Diderot è solo nel metodo d’approccio, la sostanza è la stessa. Tutti gli attori devono immedesimarsi in quello che fanno, ma anche giocare. Nessuno gioca a poker in trance. Ci sono quelli che riproducono tutti i tic nervosi e i gesti di una persona concreta (come insegna la scuola americana) e quelli che invece sono più critici. Alla fine però conta solo il talento. C’è un solo attore: quello bravo. Può aver studiato all’Actor Studio o in qualsiasi altra scuola. L’Actor Studio ha prodotto uno stile. È famosa la storia di Dustin Hoffman e Laurence Olivier mentre giravano il Maratoneta. Hoffman, fra una ripresa e l’altra, mostrava a Olivier i gesti psicologici del personaggio e Olivier gli disse: «sei ben preparato, Dustin. Ora devi solo recitare». Recitare significa giocare. Un gioco da prendere sul serio.   

Può parlare dei suoi libri?
Rosa Furia è la seconda puntata dell’Orgogliosa, il mio primo libro e quello che amo di più. L’Orgogliosa è l’infanzia, Rosa Furia è l’adolescenza. L’Orgogliosa racconta una storia ispirata al processo Calabresi. Quando scrivo parto sempre da uno spazio: nell’Orgogliosa è la scuola, in Rosa Furia è la strada e la periferia di una città.

Perché non scrive testi teatrali?
Sono una narratrice. Per scrivere un testo teatrale bisogna avere un’idea di teatro. Non credo che noi facciamo quello che vogliamo, credo che facciamo quello che siamo. L’importante è capire cosa siamo. Bisogna liberarsi dei pregiudizi su noi stessi. Sono convinta per esempio che sono soprattutto gli altri a indicarci quello che siamo. Gli altri ci vedono meglio di quanto vediamo noi stessi. Bisogna ascoltare le reazioni degli altri per conoscerci. Se non scrivo, sono infelice. Se non recito, mi dispiace, perché il teatro insegna molte cose, fa uscire dalla pattumiera giornalistica del presente e fa respirare un’altra aria. Ma la felicità che mi provoca scrivere qualcosa che funziona è infinitamente superiore alla soddisfazione di aver partecipato a un buono spettacolo. Quando rileggo e mi accorgo che funziona, mi sento pronta alla morte (sorride). È un’espressione forte, lo so, ma è la verità.  

Scrivere è entrare in contatto profondo col senso, con la luce. È dare senso al dolore, alle esperienze che dopo anni riemergono in un racconto. Allora mi dico: «ecco perché le ho vissute». Allora mi sembrava solo di subirle, adesso so che erano un alimento. Se non avessi vissuto, non avrei niente da raccontare. Oggi si scrive in modo molto sciatto. Secondo me quando si scrive bisogna salire sui coturni e, quando si legge, bisogna vivere molto intensamente. Nella vita si vive in modo sciatto. Nell’arte bisogna condensare, sintetizzare. Bisogna scrivere in modo moderno ma intenso.

 

 

 

 

Sopra:
Patrizia Zappa Mulas
(foto di Maria Mulas,
Patti e Taramà,
1999)  


 

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 


Patrizia Zappa Mulas
(Maria Mulas, Patti, 1990)
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

Patrizia Zappa Mulas
ne "Le serve"
di Jean Genet 


 
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