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Medioevo prossimo venturo

di Giovanni Fornaro
  Rodelinda
Data di pubblicazione su web 31/08/2010  

Il medioevo prossimo venturo, titolo di una nota e illuminante riflessione (1971) del compianto futurologo Roberto Vacca, mi è tornato alla mente cercando di descrivere l’operazione condotta, sotto la nuova direzione artistica di Alberto Triola, per l’ultima e più importante opera del Festival della Valle d’Itria 2010, Rodelinda, regina de’ longobardi (prima rappresentazione: Londra, King’s Theatre di Haymarket, 13 febbraio 1725), musica di Georg Friedrich Händel, libretto di Nicola Francesco Haym.

Opera molto rappresentata in tutta Europa (cito, fra i tanti, Glyndebourne Festival 1999, München Bayerische Staatsoper 2003, ecc.) ma, come per tanto fondamentale repertorio barocco, pochissimo in Italia, affiancabile - fra le composizioni händeliane di matrice non sacra - alle coeve Cesare in Egitto e Tamerlano quanto a bellezza della partitura e perché Händel scelse per tutte lo stesso librettista.

Rodelinda è proposta, qui a Martina Franca, come prima rappresentazione scenica mondiale della nuova edizione critica di Andrew Jones (2002), della quale si ricorda la prima assoluta non in forma scenica, nel settembre 2004 al Festival Barocco di Viterbo, diretta da Alan Curtis e pubblicata in cd nel 2005 per la Archiv (mentre un allestimento non filologico si è visto a Cagliari, nel 1985, con direzione d’orchestra di Otto Gerdes e la regia di Vittorio Patanè).

 

Perché assistendo a Rodelinda si pensa, più che all’alto medioevo longobardo in cui si svolge l’azione del libretto (VII secolo), ad un futuro post-atomico? Perché la regista Rosetta Cucchi - ben sostenuta dalle scene di Tiziano Santi (d’effetto) e dai costumi di Claudia Pernigotti (alla Mad Max, altro film futuribile) - ha proiettato la remota vicenda storica della regina che difende se stessa, il figlio e il trono dall’usurpatore, narrata dal monaco Paolo Diacono nel IV libro della Historia langobardorum, in una terra “altra”, disperata e sterile, ove si muovono e muoiono, oltre che i cantanti/attori, anche esseri mostruosi e oscuri, degradati nel corpo e nello spirito, ambientazione che abbiamo visto trasferirsi dalla letteratura fantasy (Robert Howard, J.R.R. Tolkien, eppoi moltissimi epigoni) al cinema (Conan il barbaro, Il Signore degli Anelli), e trasfigurarsi in altri media, fino al cinismo apocalittico di graphic novel innovative come Cronache dal dopobomba di Bonvi (1973).

Il problema di molte opere barocche, cioè una certa staticità d’azione, a fronte di una lunghezza che a noi appare eccessiva ma che il contesto della fruizione del Sei-Settecento rendeva ovvia e adeguata, in questa Rodelinda è superato proprio dal valore aggiunto di una drammaturgia “forte”, per immagini molto caratterizzate, in uno svecchiamento, una attualizzazione apparsa efficace. Sarà interessante verificare nel dettaglio e “a freddo” il modus operandi registico, grazie ad un DVD che pare sarà prodotto dallo stesso Centro Artistico Musicale Paolo Grassi che da trentasei anni allestisce il festival martinese.

 


 

E la musica, con un palco così ideato, è secondaria? Domanda pleonastica, nel caso di Händel, uno dei grandissimi geni della musica colta europea. Perché per comprendere le meraviglie di questa opera si deve partire proprio da lì, dalla profondità dei suoi meandri musicali, luminosi quanto oscuri, ove il patetico, il romantico, l’emozione degli affetti, la pietà, l’amore e la morte, il barocco e il classicismo si intrecciano con modi sublimi (vorrei dire: eterni. Ma è termine falso e iniquo, ogni gloria del mondo è destinata ad essere dimenticata).

Re taumaturgo della eccezionale tenuta timbrico-armonica di questa partitura - fruita nelle difficoltà di operare in esterni e con un’orchestra moderna, quindi contravvenendo ai rigori filologici attuali - è stato il maestro concertatore e direttore Diego Fasolis, un esperto di questo repertorio che è riuscito credibilmente a modellare un suono quasi barocco, un “period sound” secco e “ruvido” senza corde di budello o strumenti d’epoca, attraverso un cesellato lavoro sul suono, certamente “costruito” in molte ore di prove e di ripetizioni con l’ottima Orchestra Internazionale d’Italia, implementata dal solo basso continuo (Piero Barbareschi al clavicembalo, Giuseppe Putrella alla tiorba e Massimo Tannoia al violoncello), in particolare nei recitativi secchi.

Non si può tacere una questione di carattere filologico: questa Rodelinda pugliese è davvero in prima rappresentazione mondiale della nuova edizione critica? Mi pongo il problema non in relazione ai tagli di arie e recitativi. Questo è normale in ogni rappresentazione contemporanea di opere del ‘600, ‘700, ‘800: la questione è nel merito delle singole asportazioni, alcuni delle quali non hanno una loro (filologica) ragione d’essere perché non presenti neppure nelle edizioni settecentesche dell’opera.

Qualche esempio. Il taglio dell’aria del II atto "Scacciata dal suo nido" (Bertarido) non era stato effettuato in nessuno dei tre allestimenti curati dal compositore sassone nel 1725, 1725-26 e 1731; Rodelinda canta solo la prima sezione dell’aria “Mio caro bene” (III atto, anche questo taglio mai effettuato nelle edizioni suddette); i recitativi sono stati ampiamente ridotti o tagliati, nonché sono state trasposte di ottava alcune arie di Rodelinda.

Insomma, le variazioni non sono un problema (Philip Gossett docet) ma bisogna farle con un certo criterio, cosa che non sempre questo programma del Festival della Valle d’Itria sembra abbia fatto.

 

 


Il mezzosoprano Sonia Ganassi ha interpretato con onore il ruolo del titolo, se teniamo presente, però, che si cimentava per la prima volta in una vocalità barocca. Le critiche che alcuni muovono per le sue interpretazioni di opere romantiche non possono essere qui attenuate, in particolare per i problemi di chiarezza d’esposizione; ma il pubblico ha apprezzato molto il suo fraseggio e il timbro, nonché l’impegno recitativo. Non meno difficile di quello della Ganassi era anche la parte di contraltista-falsettista di Franco Fagioli, il co-protagonista Bertarido, il quale ha letteralmente conquistato la platea per le eccezionali doti tecniche che sfiorano il grande virtuosismo, dal complesso fraseggio improvvisativo, soprattutto nella replica, quando è stato “costretto” a ripetere una seconda volta l’aria “Se fiera belva ha cinto” del III atto. Una acclamazione che a Martina non si vedeva forse da un paio di decenni.

Felice sintesi (oggi si dice “sinergia”) dei pregi dei due protagonisti è l’aria forse più bella di Rodelinda, “Io t’abbraccio” (finale II), unico duetto in partitura, dall’incedere regolare, punteggiato dagli archi più gravi, in cui la commozione cambia segno perché alla felicità dei ritrovati coniugi segue un nuovo, struggente addio tra i due per l’arresto di Bertarido che sprofonda nel sottosuolo, prigioniero in gabbia, con le mani che cercano e toccano quelle di Rodelinda attraverso le sbarre.

Meritano una menzione gli altri cantanti Gezim Mishketa-Garibaldo, Antonio Giovannini-Unulfo e, soprattutto, Marina De Liso (Eduige) e Paolo Fanale-Grimoaldo.

Nel complesso si è trattato di una splendida chiusura del nuovo Festival della Valle d’Itria di Alberto Triola, una edizione in cui molte sono state le novità importanti apparse dopo sedici anni di direzione di Sergio Segalini, dall’attenzione al Novecento al recupero di un repertorio negletto in Italia come quello di Georg Friedrich Händel. 

Rodelinda, regina de' Longobardi



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