Il centro commerciale come bestiario, luogo simbolico del nostro disordine quotidiano ma anche illusorio paese dei balocchi, dove tutti – non solo Falstaff – possono credere alla leggenda del Cacciatore Nero e della quercia di Herne. Assistere a delle Allegre comari di Windsor ambientate tra una boutique e un happy hour, con limmancabile mimo che allieta (o funesta) le compere dei dannati del consumismo che vi transitano, può sembrare una forzatura, ma la messinscena realizzata a Erfurt dal regista Waut Koeken dipana lo spunto con rigore e consequenzialità: le comari sono corteggiate dallo squattrinato protagonista non in virtù del portafoglio dei rispettivi mariti, ma in quanto proprietarie di due tra i più prestigiosi negozi dello shopping center; mentre la scenografia di Benoît Dugardin – nel mostrare, con un semplice cambio di prospettiva, sia lo spaccato dei grandi magazzini con i suoi mastodontici tre piani sia linterno del negozio dove si consuma la burla della cesta – risolve senza cambi di scena il problema del continuo accavallarsi di quadri, cruciale nel Falstaff verdiano come nelle Lustigen Weiber von Windsor di Otto Nicolai.
Una scena
Felicemente impaginata anche grazie a un cast di autentici cantanti-attori e a un impatto visivo paracinematografico (il debito verso Scenes from a Mall di Paul Mazursky con Woody Allen, ambientato appunto in un centro commerciale, è palese allo spettatore cinefilo) lattualizzazione operata da Koeken è daltronde, a suo modo, quasi filologica: la descrizione del piccolo mondo borghese della Windsor elisabettiana, nocciolo della commedia di Shakespeare (sarà Verdi a dare priorità drammaturgica al tardivo canto della carne di Falstaff), fornì nel 1849 a Nicolai un ottimo spunto per ironizzare sulla borghesia tedesca contemporanea; e la corsa verso il denaro e la società dei consumi mostrata dal regista – da parte sia delle due comari bottegaie arricchite sia di chi, come Falstaff, non sa mettere insieme il pranzo con la cena – ne rappresenta lulteriore, inevitabile aggiornamento.
Altrettanto felice, in questottica modernizzata, il viraggio in chiave di musical della componente fantastica: quella sarabanda di fate, elfi e folletti dellultimo quadro che Verdi gestì con maestria ma, forse, senza particolare empatia e assai congeniale invece a Nicolai, che definì le sue Allegre comari una «komisch-phantastiche Oper». Resta invece poco spazio, in una lettura così marcatamente contemporanea, per laspetto romantico-demoniaco, che nellopera avrebbe un ruolo niente affatto marginale: non a caso il regista decide di far cantare fuori scena la truce ballata del Cacciatore Nero intonata da Frau Reich (la Meg verdiana), mentre il dionisiaco brindisi di Falstaff si riduce a momento macchiettistico.
Una scena
La compagnia di canto era di quelle che sanno far teatro divertendo e divertendosi: unalchimia che in Italia si raggiunge di rado, anche quando si ha a che fare con voci migliori di quelle schierate a Erfurt, e induce a vedere il bicchiere sempre mezzo pieno. Dunque importa poco che il suono di Sebastian Pilgrim appaia un po secco nei numerosi affondi gravi che la scrittura di Nicolai attribuisce a Falstaff, parte di «basso buffo profondo» sulla scia dellOsmin del Ratto dal serraglio e con una sessantina danni di anticipo sul barone Ochs del Cavaliere della rosa: ci si lascia catturare dalla verve del commediante più che sottolinearne gli eventuali limiti fonici. Daltronde in Nicolai vere protagoniste sono le lustigen Weiber eponime, con Frau Fluth e la sua difficilissima aria del primo atto in veste di mattatrice: nonostante una voce di magre attrattive timbriche Marisca Mulder domina con sicurezza i virtuosistici fuochi dartificio della pagina e plasma, nel resto dellopera, un icastico ritratto di comare allegra, sì, ma calcolatrice e tuttaltro che specchiata. Le fa efficacemente da spalla, con un colore accattivante di vero mezzosoprano, la Frau Reich di Stefanie Schaefer, a suo agio nello scintillio della commedia come negli affondi macabri della ballata dellultimo atto.
Laltro soprano, Susanne Langbein, è una Nannetta gradevolmente in bilico tra lilialità e malizia, purtroppo mal servita dal Fenton con cui deve fare coppia, Marwan Shamiyeh, tenore dalla vocalità oltremodo incerta quanto ad appoggio e intonazione. Qualche debolezza veniva anche dalla baritonalità un po pallida di Peter Schöne (Herr Fluth) e dalla voce di basso imponente per volume, ma ruvida per emissione, di Vazgen Ghazaryan (Herr Reich): tutti peraltro tasselli di un ingranaggio perfettamente oliato, dove a far chiudere il bilancio in attivo provvedono i due sapidi comprimariati di Jörg Rathmann e Ji-Su Park.
Una scena
Alla guida di un complesso eccellente sia per nitore sia per compattezza di suono come lOrchestra Filarmonica di Erfurt, il direttore Samuel Bächli valorizza tanto le incantate trasparenze della partitura quanto la sua gioiosità ritmica, mostrandosi anche sensibile accompagnatore delle voci: ne scaturisce quella giusta dialettica tra sinfonismo tedesco e vocalismo italiano che Nicolai si prefiggeva come obiettivo ineludibile; e, al contempo, quella sintesi tra “alto” e “basso”, quotidiano e sublime che fu un ingrediente del teatro musicale in Germania sin dalle sue origini. E, oltre tutto, è quanto di più shakespeariano si possa dare.
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