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Esotico come il Medioevo romantico

di Vincenzo Borghetti
  Tannhäuser
Data di pubblicazione su web 01/04/2010  

Torna alla Scala il Tannhäuser, grande opera romantica in tre atti di Richard Wagner nella nuova produzione di Carlus Padrissa con la Fura dels Baus. C’era molta attesa per questo spettacolo. Ce n’è sempre per un nuovo spettacolo della Fura; ce n’era di più perché si tratta di un nuovo spettacolo della Fura fatto appositamente per la Scala, un teatro che solo pochi anni fa non si immaginava potesse commissionare alcunché ad un gruppo di teatro d’avanguardia. L’ultima edizione scaligera dell’opera di Wagner con la regia di Paul Curran era solo del 2005; la scelta di proporne un nuovo allestimento è uno dei segnali che tante cose sono cambiate e (per fortuna) stanno ancora cambiando nel teatro milanese. Come c’era da aspettarsi le contestazioni non sono mancate, e proprio la messinscena è stata il bersaglio delle manifestazioni più rumorose del pubblico alla prima. Tutto secondo le previsioni. Del resto non si ricorre alla Fura per produzioni “di servizio”, quelle per cui gongolano i melomani nostrani, bensì per produzioni che, al di la della loro riuscita, facciano discutere. Il Tannhäuser della Fura ha fatto discutere, e quando si discute è sempre un buon segno.

 


 


Robert Dean Smith e Anja Harteros
 

 

La Turingia del XIII secolo come il Rajasthan: questa l’idea fondamentale di Padrissa per il suo nuovo Tannhäuser. Le note di regia spiegano che l’impulso per la trasposizione è venuta dallo stesso Zubin Metha che, nel 2009 durante la lavorazione alla Götterdämmerung del Maggio fiorentino, ha suggerito al regista quella regione dell’India come possibile Venusberg contemporaneo. Il Rajasthan mediato dalla cinematografia di Bollywood diviene allora il luogo dove trasportare il Medioevo appassionato dei Minnsänger, il luogo dove è ancora possibile immaginare che un poeta sia tenuto prigioniero da una dea, e dove ci si possa ancora unire a masse di pellegrini in cammino. Dai rossi, gli ori, gli azzurri delle miniature tedesche medievali agli ocra, arancio e fucsia dell’India, secondo Padrissa, il passo è breve.

 

Il Tannhäuser della Fura non poteva però essere solo una ricollocazione storico/etnica dell’opera. L’ambientazione orientale fa da cornice ad un allestimento di grande complessità tecnologica, imperniato sull’uso di videoproiezioni (del videomaker Franc Aleu) e di macchine sceniche (dello scenografo Roland Obleter), cioè tutto quanto ha costituito la caratteristica degli allestimenti operistici del gruppo catalano. L’elemento scenico centrale è una mano sinistra robotizzata alta circa 10 metri che continuamente riappare in scena ora chiusa, ora aperta, ora reclinata, ora incombente, e che, variamente illuminata e decorata dalle proiezioni, sottolinea in modo simbolico i momenti della vicenda di Tannhäuser nella sua ricerca eroica dell’amore. (Devo purtroppo sottolineare che il mio posto era troppo vicino alla scena sia per poter cogliere l’azione tra le proiezioni sovrapposte, sia per poter vedere quanto si svolgeva nella metà destra del palco; il lettore mi scuserà se posso riferire di particolari dell’allestimento solo grazie ai racconti che mi sono stati fatti e non per diretta esperienza).

 

Il primo atto ha all’inizio ben poco di orientale: il Venusberg è ricostruito per mezzo di proiezioni che mostrano grovigli carnali sul fondale e sul velo davanti al proscenio. Sulla scena compare un’acrobata sospesa (altri, mi hanno detto, si muovono sullo sfondo); poi ballerini finto-nudi quali ninfe, satiri, naiadi (due nuotatrici in una piscina a scomparsa) introducono l’ingresso di Venere e Tannhäuser su un piccolo monte trascinato da altri finto-nudi seguaci d’amore. Poco prima della sparizione del regno incantato di Venere compaiono i primi elementi indiani: le statue umane del costumista Chu Uroz ispirate dai rilievi del tempio di Kali a Khajuraho preparano ai colori della sala della Wartburg del secondo atto. Qui siamo ormai in pieno Rajasthan e Bollywood, con relativo trionfo di colori e di kitsch pseudo-asiatico: turbanti e occhiali da sole, sahri sgargianti e collane di fiori luminose, ballerini impegnati in siparietti da tv commerciale (del coreografo Biagio Tambone) fanno da contorno alla gara dei cantori.

 

Il terzo atto si apre con Elisabeth sospesa in una macchina. Dietro di lei sono proiettati due enormi occhi piangenti. Le sue lacrime scorrono su un doppio scivolo-lacrimatoio metallico à la Frank Gehry e inondano il palco trasformato in una enorme vasca. Nel mar di pianto di Elisabeth si consuma la morte di Tannhäuser, cui il papa (un Wojtila per nulla misericordioso, ho poi saputo, proiettato sui teli di lavandaie alla fonte) non ha concesso il perdono. L’opera si conclude col trionfo di proiezioni come per il Venusberg, e il coro dei pellegrini si dipana sulle immagini delle sfere celesti rotanti.

 

Una scena dello spettacolo
 

Il punto forte della produzione della Fura è la tecnologia; tutte le scene incentrate sull’uso di macchine e di proiezioni sono quelle meglio risolte di questo Tannhäuser: il Venusberg, le processioni dei pellegrini, il finale dell’opera. Dove Wagner riporta l’azione al confronto tra esseri umani, o costruisce le scene sull’interazione emotiva dei personaggi e non su grandi tableaux spettacolari, la lettura di Padrissa sembra invece meno interessata, e il risultato è infatti meno interessante. Tannhäuser non è l’Anello del Nibelungo; in questa grande opera romantica i personaggi posseggono una dimensione umana e storica di cui però la regia non si è voluta far carico fino in fondo. Non a caso, il momento meno felice dell’opera è uno dei momenti più “terreni” della vicenda: la gara canora alla Wartburg. La competizione dei Minnesänger è resa come una parodia post-coloniale del cinema bollywoodiano. Il clima da farsa (cui contribuiscono le coreografie demenziali di Tambone) insieme alla dislocazione geoculturale nel Rajasthan accrescono il senso di distacco emotivo dalla scena rappresentata, e al contempo rivelano la difficoltà tipica del teatro d’avanguardia di occuparsi degli esseri umani in carne ed ossa. Non c’è un lavoro approfondito sulla recitazione dei cantanti/attori, e fuori dalla meraviglia scenotecnica gli interpreti si muovono col solito repertorio di pose standard da cantanti d’opera: braccia aperte, mani sul cuore e via dicendo. Ne consegue una disparità del risultato: quando non ci sono gli effetti speciali, quando l’azione scende al livello dei mortali e dei loro sentimenti, è come se la regia volgesse i pensieri altrove.

 


 


Una scena dello spettacolo

 

 

La recita del 27 marzo non ha visto ripetersi le contestazioni delle serate precedenti: applausi per tutti, in special modo per Zubin Metha, cui il pubblico ha tributato una meritata ovazione prima del terzo atto. Si è trattato di un vero e proprio risarcimento per la sua ottima direzione, dopo gli incomprensibili “buuu” di alcuni loggionisti alla terza replica. Il cast vocale è stato di buon livello con punte in entrambi i sensi. Il protagonista Robert Dean Smith non ha quella che si definirebbe una voce bella, ma ha tecnica sicura e ottima dizione e, nonostante alcune difficoltà iniziali, è riuscito nel corso dell’opera a dominare una delle parti più impegnative del repertorio lirico tenorile. Il momento più convincente della sua performance è stato l’atto conclusivo, proprio dove in genere i Tannhäuser giungono vocalmente stremati. Eccezionale sotto tutti i punti di vista la prova di Anja Harteros. La cantante, dotata di una voce ricca di armonici e dai registri omogenei, è stata da subito a suo agio nel ruolo di Eisabeth, e si è mostrata un’interprete matura, capace di coniugare in modo perfetto partecipazione emotiva ed eleganza di fraseggio (qualità niente affatto scontate per le interpreti wagneriane). A lei e a Metha sono andati i maggiori consensi. Molto meno entusiasmanti invece la Venus di Julia Gertseva e soprattutto il Wofram di Roman Trekel. La prima è apparsa scenicamente credibile come dea dell’amore, ma il suo fraseggio è generico e la sua dizione oscura. Il secondo può esibire come la precedente un fisico invidiabile (anch’esso perfettamente valorizzato dai costumi di scena), ma, nonostante Wolfram sia uno dei suoi personaggi, il canto legato che il ruolo richiede non è proprio sembrato il suo forte. Bene i comprimari, tra cui segnalo l’Hermann di Georg Zappenfeld.

 

Tannhäuser



cast cast & credits

L'ouverture
L'ouverture




 
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