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Liete sorprese fuori dallo star system

di Paolo Patrizi
  Arabella
Data di pubblicazione su web 29/03/2010  

Travestimento e metamorfosi sono i due nuclei portanti della drammaturgia di Arabella, capitolo conclusivo dell’aureo sodalizio tra l’arte musicale di Richard Strauss e quella letteraria di Hugo von Hofmannsthal (e purtroppo, per quest’ultimo, anche suo estremo testamento poetico): con il codicillo – per rendere il gioco apparentemente più geometrico, ma nella sostanza più inquietante – che la metamorfosi porta a sua volta alla caduta del travestimento, anzi all’impossibilità di mascherarsi per il resto dell’esistenza. Sicché la festa di carnevale in cui si svolge l’atto mediano dell’opera assume, col senno di poi, il sapore d’un congedo irrevocabile: dopo un’ultima notte di leggerezza è tempo del salto nel mondo degli affetti definitivi, o dove almeno l’impegno è che restino tali; il transito insomma verso una femminilità più consapevole, non necessariamente più felice, cui sarà difficile attribuire – e far cadere – alcuna maschera.


Anna Kim (Fiakermilli), Bernd Valentin (Mandryka)
 

In questa prospettiva, il gesto con cui la regista Brigitte Fassbänder (il grande mezzosoprano che, ritiratasi dalle scene, ha assunto la direzione artistica del Landestheater di Innsbruck, spesso curando in prima persona le messe in scena degli spettacoli) fa accompagnare l’ultima battuta non potrebbe essere più eloquente: «Ormai non posso più trasformarmi… prendimi quale sono», dice Arabella al suo Mandryka, e intanto lei getta via il cappello da fata turchina, lui il naso a ciliegia da pagliaccio. È un’immagine di ottimo teatro (non a caso da parte di una regista che fu una delle più significative cantanti-attrici della sua generazione), che sigla la commedia con una sorta di Lubitsch touch a suo modo filologico: i primi grandi film di Lubitsch sono più o meno contemporanei all’Arabella e Mancia competente (1932, un anno prima dell’opera di Strauss) incentra il proprio meccanismo su un gioco di porte che si aprono e si chiudono speculare a quello concepito qui da Hofmannsthal.

 

Andreas Mattersberger (Graf Dominik),
Susanna von der Burg (Arabella)


A una regia sapientemente tradizionale (anche in certe gag, quali naturalistiche e quali surreali, ma tutte molto centrate) e impeccabile nei tempi fanno adeguato riscontro la scenografia agile e funzionale di Dietrich von Grebmer (sebbene il budget contenuto renda il quadro della festa più pauperistico che stilizzato) e la lettura musicale, altrettanto sciolta, del direttore Alexander Rumpf: molto sensibile al côté “conversativo” dell’opera, un poco meno all’analisi di quella dialettica tra levigatezza dei temi e loro frantumazione che innerva la partitura. Il meglio, però, viene dal palcoscenico: un cast formato ora da elementi della compagnia stabile del teatro tirolese ora da cantanti ospiti, gli uni e gli altri estranei al mondo dello star system ma quasi tutti con molto da insegnare – per impegno, entusiasmo, musicalità, cura dell’interpretazione – a svariate decine di colleghi che vanno per la maggiore.


Günter Missenhardt (Graf Waldner), Ines Lex (Zdenka),
Mark Adler (Matteo)
 

È probabile che, oltrepassato Brennero, il nome del soprano Susanna von der Burg non dica nulla. Sta di fatto, però, che ci troviamo davanti a un’artista completa, di sostanza e senza infingimenti (anche sul piano scenico: una bellezza non appariscente, ma autentica), che con la duttilità che si richiede ai cantanti d’una compagnia stabile flette il proprio strumento da soprano drammatico alle struggenti oasi liriche di Arabella. Ma se per l’ottima von der Burg – non più giovanissima – è ormai anagraficamente improbabile un grande lancio internazionale, sarebbe lecito pensare che l’efebica Anja Scholz prima o poi spicchi il volo e che ne sentiremo parlare anche al di fuori del Tiroler Landestheater. I nostri direttori artistici farebbero bene a tenerla d’occhio: l’altissima compenetrazione interpretativa con cui incarna i tormenti dell’adolescente Zdenka costretta dagli eventi a fingersi un ragazzo, e l’eccellente proiezione che le consente di riempire di suono il teatro anche nei momenti di canto più sfumato, testimoniano un’artista completa sotto il profilo tecnico e sotto quello espressivo. E pure la dialettica con la protagonista funziona assai bene: affidare Arabella e la sua sorella minore – com’è avvenuto nel caso della von der Burg e della Scholz – a un soprano drammatico e un soprano lirico, anziché a un lirico e a un leggero, garantisce quel giusto peso anche nella rarefazione che, in fondo, è la chiave di volta per affrontare la psicologia canora di quest’opera.


Una scena dello spettaolo
 

Gli altri s’impongono forse un po’ meno: ma è doveroso sottolineare la simpatia e la grinta, che compensano un timbro non privilegiato, con cui il baritono Bernd Valentin plasma la rusticana aristocrazia di Mandryka; il dominio vocale (tolto un piccolo sbandamento nell’ultimo atto) che consente al tenore Mark Adler di fronteggiare l’ardua scrittura di Matteo, nonché la sensibilità interpretativa con cui attribuisce tormenti e dignità a un personaggio talvolta a un filo dal ridicolo; l’autorità d’artista dell’anziano basso Günter Missenhardt, commediante formidabile e voce non certo fresca, ma ancora con le note in ordine e tutt’altro che senile per volume. Per contro, il soprano Anna Kim abborda la parte acutissima della Fiakermilli – storica canterina nella Vienna del tardo Ottocento – con molta verve e qualche strillo, il mezzosoprano Anne Pellekoorne è assai migliore come attrice che come cantante e il vacuo conte Elemer del tenore Ansgar Matthes appare un po’ vano anche quanto a intonazione. Ma sono peccati veniali all’interno di un cast complessivamente ottimo, chiuso dalla chiromante di Kristina Cosumano con l’icasticità delle comprimarie di classe.

Arabella



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