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Giovane Mozart sotto tutela

di Donato De Carlo
  Idomeneo
Data di pubblicazione su web 09/03/2010  

Idomeneo di Mozart ha avuto quella che si può ben dire una fortuna equivoca. Se n’è a più riprese caldeggiato l’ingresso nel grande repertorio, ma quasi sempre a patto di sostanziali rimaneggiamenti. Benché oggi lo si consideri un capolavoro mancato piuttosto che un’opera da sottoporre a drastica chirurgia plastica, e le nozze di genio e filologia paiano definitivamente celebrate, l’allestimento andato in scena al Teatro Comunale di Bologna, coprodotto con il Regio di Torino, non ha operato diversamente dai tempi scettici e premurosi di Hermann Abert e Richard Strauss. Certo è difficile esser fedeli a un’opera come questa su cui Mozart intervenne fino all’ultimo facendo di necessità virtù (senza che sia del tutto chiaro come la si eseguì la prima volta) e ch’egli avrebbe voluto in seguito rimodellare in maniera molto diversa, su libretto tedesco anziché italiano; ma la regia di Davide Livermore, unita ai tagli fatti per non superare le tre ore di spettacolo, dà come risultato qualcosa di comunque diverso dall’originale.

 


                             Idomeneo (Francesco Meli)


La chiave di lettura unisce illuminismo e psicanalisi: gli dei falsi e bugiardi sono sostituiti dal più saldo lettino di Freud e il mito eroico diviene proiezione di un dramma universale della coscienza. Il conflitto fondamentale è quello fra padre e figlio, e il re di Creta Idomeneo vorrebbe sacrificare il figlio Idamante non perché costretto da un voto fatto a Nettuno ma per narcisismo, un narcisismo che gli detterebbe altresì una cattiva politica, simboleggiata dalle sventure del suo popolo. Mentre l’orchestra suona l’ouverture, si alza uno schermo con un’immagine acquatica, dietro cui si erge Idomeneo; sopra lo schermo-acquario stanno in piccolo i simboli scenici dei personaggi principali: la facciata d’un tempio diroccato recante il nome di Idomeneo per il protagonista; un letto con baldacchino sconvolto dal vento per Ilia, la prigioniera nemica amata da Idamante; un’auto rossa fiammante per Elettra, l’innamorata respinta; un lampione cadente, forse per il popolo. Idomeneo immerge la sua mano nell’acqua due volte (in momenti però strutturalmente diversi della musica) a sottolineare la propria totale responsabilità del dramma che seguirà. 
 

Quando Ilia canta la sua aria, dietro di lei sta disteso un gruppo di figuranti; si alzano e le si avvicinano durante la seconda strofa, a materializzare la colpa che la schiava troiana sente verso il proprio popolo allo scoprirsi attratta dal suo padrone greco. La regia, seguendo una secolare sfiducia nelle forme operistiche settecentesche, infonde dunque a questa come alla maggior parte delle altre arie una marcata dinamica scenica visualizzando spunti del testo. Anche Idamante, che ha sempre un’andatura dimessa da adolescente, ha quindi nel suo primo numero una sorta di doppio senza volto alle spalle, di significato meno chiaro; nella seconda aria interagirà con un Idomeneo dal viso coperto, illustrazione dei versi che parlano appunto dello sdegno paterno. Tutti i cretesi hanno pellicole traslucide sulle giacche, segno acquatico della loro appartenenza al regno di Idomeneo, la cui coscienza ha nell’acqua marina uno dei propri simboli. Elettra è una vamp in rosso dall’aggressiva pettinatura anni ottanta, entra in scena sbattendo – sull’ultimo accordo del coro precedente – la portiera della sua auto sportiva demodè piuttosto sverniciata, fuma con nevrotica insistenza e un vento che filtra da terra mentre canta le scopre le gambe come nel film di Gene Wilder. Alla fine del numero, non fosse chiara la sua gelosia per Ilia, dà fuoco al letto della rivale lanciandovi la sigaretta (benché il letto ritornerà poi intatto in scena).

 

Dei Leitmotive gestuali, che ritorneranno in seguito nell’azione, accompagnano la virtuosistica aria di Idomeneo nel secondo atto: a spiegare che non v’è altro dio all’infuori di Idomeneo stesso (come già dice il nome del protagonista davanti al tempio), questi si pone una mano sul petto per indicare insieme la sua colpa e l’origine interiore della tempesta che affliggerà il suo popolo, «un mar in seno»; si copre poi un occhio, elemento che campeggerà ricorrente in scena, altro emblema della coscienza cui tutto il dramma è ricondotto. A fini ugualmente illustrativi Idamante sta in scena, contrariamente alle didascalie del libretto, durante la seconda aria di Elettra, affinché l’apostrofe all’«idol mio» e la prefigurazione del «vicino ardore» diventino un vero e avvinghiante tentativo di seduzione. Poi la procace argiva, per lasciar Creta con l’amato, sale sull’auto che fa veci di nave.



                                 Idomeneo colpevole
 

Dopo che Idomeneo si è riconosciuto colpevole, la mano che aveva immerso nell’acquario-schermo all’inizio dell’opera imperversa proiettata sul suo popolo in scena, e i simboli dei protagonisti ricompaiono distrutti nell’atto successivo: la nobiltà del padre che si offre e oppone al dio per salvare la vita del figlio si capovolge, nella lettura di Livermore, nell’incaponimento dell’egoismo. La tragedia deve essere così risolta dall’uccisione del padre, poiché non altri che lui sarebbe in verità il mostro scatenato dal dio irato; Idamante armeggia dunque con un grosso faro che emana un sonoro lampo sulla scena e ferisce l’occhio di Idomeneo, il «ciglio irato» (la peripezia diventa così un primo scioglimento, e quello decisivo). Al momento in cui poi il sacrificio sta per compiersi c’è l’ultimo disvelamento psicanalitico: la voce dell’oracolo che ferma la mano di Idomeneo prorompe dal re stesso (anche se non è la sua), segnalata da una forte luce che gli fuoriesce dalla bocca. Alla fine dell’ultima aria di Elettra, Idomeneo sottrae a questa il pugnale del sacrificio ch’ella sta brandendo per togliersi la vita (anche qui materializzando quella che nel testo è solo una minaccia) e con esso infrange lo schermo comparso all’inizio dell’opera, segno della definitiva rottura del vecchio ordine della violenza e dell’inizio del regno illuminato.

 

I tagli, a parte il balletto finale solitamente omesso, hanno interessato perlopiù brani di recitativi secchi – senza quasi mai coincidere con quelli indicati da Mozart stesso per la prima – nonché il coro finale nel primo atto, accorciato della prima parte carica di mitologia, e l’aria di Arbace nel secondo (che anche il compositore espunse nella versione successiva). Aggiunta invece, rispetto alla messinscena originaria, l’ultima aria di Elettra, in cui Mozart avvertiva il problema di lasciare in scena senza relazione con la cantante gli altri personaggi; il ruolo del tutto originale – di ulteriore scioglimento - che il numero ha in questo allestimento, non toglie che i movimenti con cui gli astanti sembrano mimare le furie evocate da Elettra convincano poco. Tuttavia, l’obiezione fondamentale da porre non riguarda la misura in cui ci si possa discostare da un testo comunque precario e discutibile, né la diversa economia drammaturgica che da questa regia risulta. Al momento dell’uccisione del padre si ode un forte squarcio sonoro mentre l’orchestra tace, poi la rottura finale dello schermo è accompagnata da una forzatura ad effetto del colpo di timpano che chiude l’aria di Elettra: ciò significa inserire o estorcere una drammaturgia sonora esterna alla musica, che non si può perciò dire dedotta dalla partitura.


 


                          Una scena dello spettacolo
 

La direzione di Michele Mariotti, pur certo decisiva nei momenti migliori del canto, è stata spesso frettolosa e superficiale. Disuguale la prova del coro, forse a volte messo in difficoltà dal gran movimento prescrittogli; convincente l’Arbace di Enea Scala, poco il Gran Sacerdote di Paolo Cauteruccio. Quanto ai protagonisti, tutti parsi ligi alla regia, Francesco Meli ha impersonato un Idomeneo nobile, d’una dignità quasi classica a fronte della inquieta messinscena, con una sola incertezza nelle colorature della grande aria di paragone. Giuseppina Bridelli è stata un Idamante corretto ma ben poco espressivo. Angeles Blancas Gulin, Elettra, fallosa in acuto e debole nel grave nelle arie drammatiche del primo e terzo atto, è stata invece indubbiamente egregia in tutto il secondo, più cantabile. Pregevole l’Ilia di Barbara Bargnesi, timbricamente duttile, espressiva e omogenea: la sua aria Zeffiretti lusinghieri, sobriamente illustrata dal roteare al vento di brandelli di carta, è probabilmente stata il momento migliore della recita.

 

Idomeneo



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